sabato 12 giugno 2021
In un libro i segreti di un «metodo» che ha 70 anni: «Per la vera cooperazione serve una relazione. In Sud Sudan partimmo dai ruderi: oggi c’è un ospedale da 1.500 parti l’anno»
Don Dante Carraro, direttore di Medici con l'Africa Cuamm

Don Dante Carraro, direttore di Medici con l'Africa Cuamm

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«Una cooperazione fatta solo di soldi non è vera cooperazione: è necessario instaurare una relazione tra chi lavora sul campo e chi riceve quel dono, in modo che non si tratti solo di assistenzialismo. Io cooperante non solo do, non solo insegno, ma posso anche imparare e ricevere: è così che il meccanismo dello sviluppo diventa virtuoso, che capiamo che l’Africa non una disgrazia capitataci vicino a casa, ma l’opportunità di crescere con una prospettiva di futuro l’uno per l’altro». Don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa Cuamm, spiega così il senso di un impegno che ha raggiunto i 70 anni di storia. Il suo ultimo libro (Quello che possiamo imparare in Africa. La salute come bene comune, con Paolo Di Paolo, edito da Laterza) è un inno alla buona cooperazione, quella che guarda allo sviluppo come frutto di un patrimonio di valori da condividere tra Nord e Sud del mondo.

Don Dante, per cosa si va in Africa?
Si va per la consapevolezza di una disuguaglianza molto forte. Prendiamo la Sierra Leone, che ha un anestesista in tutto il Paese. Come Cuamm siamo arrivati lì nel 2012: la mortalità materna era la più elevata al mondo. Oppure il Sud Sudan, dove operiamo da 15 anni: c’era un’ostetrica per 20mila mamme. Sono Paesi fragili con una mancanza «istituzionale» di un sistema sanitario.

E per chi si va in Africa?
Per quella mamma, quel papà, quella famiglia che hai incontrato, per quel bambino che hai perso per malnutrizione e avresti potuto salvare. È per quel volto, quindi, ma quel volto poi si allarga fino a vedere quello in cui credi, fino a sentire di dovere restituire qualcosa. È poi c’è la gioia infinita di vedere gli occhi di quel ragazzo o di quella ragazza che hai fatto studiare per farli diventare ostetrica o infermiere. Come Amina, che mi ha abbracciato dicendomi: «Sono tra le ragazze che si sono laureate a Juba. Sono orgogliosa».

Si può partire anche solo dai resti di un ospedale in mezzo al nulla…
Nel 2007 a Yirol in Sud Sudan ci troviamo davanti soltanto una prateria sconfinata con dei ruderi. Ci viene incontro un pastore con le sue mucche, si avvicina a noi e ci dice con una dignità incredibile: «Piacere, sono il direttore dell’ospedale». Lì intorno non c’era nulla, ma abbiamo capito che bisognava crederci. Ecco l’importanza di iniziare a ricostruire, per dare un segnale, sentire che quella speranza, quel sogno diventa gradualmente verità, diventa realtà se hai consapevolezza del valore enorme di quell’inizio. Mettere una pietra sopra l’altra: quel sogno è partito, è l’inizio di un mondo diverso.

Ma in un primo momento in quell’ospedale non veniva nessuno…
La gente non ti dà subito la sua fiducia, te la devi guadagnare. Vogliono capire per quali ragioni sei lì. Noi rimaniamo degli extraterrestri in situazioni in cui non c’è nulla. Ecco l’importanza dei tempi lunghi per la cooperazione. È stato così a Yirol: le persone vedono come vivi, dove stai, se soffri con loro anche la fame. Solo così siamo passati da 300 parti all’anno a 1.500.

Che rapporto avete con i donatori?
Dobbiamo essere responsabili dei fondi che ci vengono donati, renderne conto. Quante volte mi è stato detto con sufficienza: «Le donazioni son soldi buttati via che non cambiano nulla». Ma se io ti presento dei risultati, ti faccio vedere che in un anno ho sostenuto un certo numero di madri, di bambini, di pazienti, ti mostro cosa si può fare. Ecco perché il nostro rapporto annuale è pieno di numeri: corrispondono alla responsabilità verso i donatori. Senza di questo si corre il rischio di non essere efficaci. E non possiamo permettercelo.

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