sabato 9 luglio 2011
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La nascita di una nazione, soprattutto a queste latitudini, si porta dietro un carico enorme di incognite e problemi. Perché basta un veloce giro in auto per le vie di Juba – per non parlare delle zone più remote – per accorgersi che davvero il Sud Sudan parte da zero. Non ci sono strade, né scuole né ospedali degni di questo nome. Né, tanto meno, si può esser certi che non si torni alla guerra con Khartum. E allora quali sono le prospettive di Juba a breve e medio termine?L’economia. Il Sud Sudan è il maggior candidato all’ingresso nella Comunità dell’Africa orientale (Eac) – che comprende Kenya, Uganda, Burundi, Tanzania e Ruanda – nel caso in cui, come sembra, l’organismo decida l’allargamento. Il passo converrebbe a entrambi. Il Sud Sudan costituisce il principale mercato dell’export per l’Uganda (184,6 milioni di dollari nel 2009), ma anche il Kenya ha ottimi rapporti commerciali con Juba (157,7 milioni di export, sempre nel 2009). Per gli analisti, un ritorno del Sud Sudan alla guerra potrebbe costare ai Paesi vicini, su un periodo di dieci anni, il 34% del loro Pil complessivo. Nairobi e Addis Abeba – che dell’Eac non fa parte – soffrirebbero perdite per un miliardo di dollari l’anno. La stabilità, dunque, conviene a tutti. Juba ha inoltre avviato studi per la costruzione di oleodotti verso il Kenya e l’Uganda, in modo da bypassare le infrastrutture di Khartum. Quasi superfluo sottolineare che i 375mila barili di greggio prodotti quotidianamente in Sud Sudan costituiscono l’enorme ancora di salvezza alla quale sono aggrappati 10 milioni di sud sudanesi.La sicurezza. Si può parlare di stabilità e pace raggiunta quando da gennaio a oggi il Sud Sudan ha visto morire quasi 2.400 persone? Probabilmente no, tanto che già molti analisti prevedono per il Sud Sudan un futuro da "failed state", uno Stato fallito ancor prima di nascere. Le cause delle violenze sono diverse. Da una parte, infatti, ci sono sanguinose lotte tribali, dall’altra le scaramucce con le truppe di Khartum nelle zone di confine, come il Kordofan e Abyei. Per quanto riguarda il primo aspetto, c’è da dire che alcuni gruppi etnici si sono combattuti per secoli per il controllo del bestiame, parte vitale dell’economia. Certo è, però, che il bilancio dei morti è salito a dismisura con la guerra civile e la vasta diffusione di armi. Juba ha anche accusato Khartum di armare tribù rivali e provocare insurrezioni nel tentativo di minare la stabilità e assicurarsi il controllo del petrolio. Oggi nel Sud sette diverse milizie combattono contro le forze governative. Molte affermano di lottare contro quella che considerano la corruzione e la discriminazione etnica del governo sud sudanese. Il presidente Salva Kiir ha offerto l’amnistia ai ribelli, chiedendo loro di contribuire alla nascita della nuova nazione. L’Onu, da parte sua, si appresta a inviare una nuova missione di peace-keeping. Ma le incognite restano.Il dramma umanitario.Gli ultimi dati delle Nazioni Unite vedono il 90% dei sud sudanesi sotto la soglia di povertà e il ritorno in patria di oltre 300mila persone che vivevano al Nord non può che ingrandire ulteriormente la sfida dello sviluppo. Si calcola che la dipendenza dagli aiuti sia di 1,5 miliardi di dollari annui. E per il 70% si tratta di aiuti di emergenza. Il solo fabbisogno alimentare è coperto per ben due terzi dai donatori. E anche i Paesi vicini sono preoccupati per i possibili flussi migratori. L’impegno delle Ong e degli organismi internazionali è, nel breve e medio periodo, assolutamente imprescindibile. Ma se le autorità di Juba non vogliono che parlare di «indipendenza» sembri al più un amaro paradosso, dovranno darsi da fare per sfruttare al meglio i proventi di quel tesoro energetico di cui il Sud Sudan dispone.
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