mercoledì 8 maggio 2013
COMMENTA E CONDIVIDI
Nelson ha sei anni ma non arriva ai 40 centimetri e anche la voce è ancora quella di un neonato. E’ l’essere umano più fragile che abbiamo mai incontrato. Si regge sulle sue gambette e prova ad attirare l’attenzione, attorniato dai suoi piccoli grandi amici: alcuni sono alti il quadruplo di lui, rimasto fisicamente un lattante a causa di una malattia della crescita.Occorre lasciarsi dietro ogni certezza quando si entra nell’orfanotrofio gestito dalle Suore poverelle a Kankao, a una decina di chilometri di distanza da Balaka, nel Malawi centrale. Perché gli sguardi di chi non ha niente tolgono il fiato, perché il sorriso di chi ti accoglie ti fa sentire la persona più importante al mondo. Per arrivarci si percorrono strade di terra rossa piene di buche che solcano campi di cotone e girasoli, punteggiati da poche casupole nel raggio di decine di chilometri di natura selvaggia. Quando arriviamo, le suore (due italiane e una malawiana) sono momentaneamente fuori, così ci accoglie Elizabeth Ziyabu, una ragazza di 25 anni che dà una mano nella struttura insieme ad un’altra decina di donne e giovani del posto. Ci spiega, Elizabeth, che il centro accoglie una trentina di orfani da zero a tre anni e altrettanti bambini e ragazzi con disabilità mentali e fisiche. Sono questi ultimi a venirci incontro: c’è chi è stato colpito dalla poliomielite, chi è tetraplegico, chi ha gravi ritardi psichici. Almeno una decina sono su una sedia a rotelle. E poi c’è Tyson, che di anni ne ha una decina: è iperattivo e sembra quello messo meglio di tutti, ma da piccolo è rimasto coinvolto in un incendio, di cui ancora porta qualche segno, e da allora si porta dietro un trauma mentale. Con la sua carrozzina si avvicina Emanuel, 12 anni. Ha solo il tronco sviluppato normalmente, mentre le gambe sono corte e gracili e ripiegate sul sedile della carrozzina stessa. A vederlo, penseresti sia pronto a parlarti solo dei suoi problemi. E invece ti sorprende. “La vita qui è bella – dice in un buon inglese – Ho tanti amici, vado a scuola, guardiamo le partite di calcio. Poi da grande mi piacerebbe fare il dottore per aiutare gli altri”. I ragazzi vanno a scuola poco lontano, qua è garantito loro vitto e alloggio, oltre a un’attività fisica più specifica per le loro condizioni di salute. Sono le stesse famiglie a portarli dalle suore, perché non saprebbero come affrontare le loro difficoltà fisiche.L’orfanotrofio sorge di fronte alla struttura per i disabili, nello stesso complesso. E’ qui che vengono accolti i bambini trovati per strada, abbandonati da ragazze madri, oppure la cui madre è morta durante il parto. Staranno con le suore fino ai 3 anni, quando si proverà a trovar loro una sistemazione, spesso nella cosiddetta famiglia allargata. E’ qui che troviamo un altro Emanuel, questo di appena quattro mesi, arrivato appena due settimane fa. Dorme pacifico nella sua culletta. Il 13 maggio, spiega Elizabeth, comincerà la terapia con gli antiretrovirali. Perché è nato sieropositivo, come tanti bimbi in uno dei Paesi in cui l’Hiv è tra i problemi principali. Accanto a lui giocano Esther, Martina, Solomon. Nella stanza accanto le donne che danno una mano alle suore cucinano una zuppa di farina di mais e acqua e imboccano i bambini. “Quando entri qui dentro pensi di aver di fronte i bambini più sfortunati del mondo – conclude Elizabeth – la verità, però, è che i fortunati sono loro, al confronto di tutti quelli che fuori di qui non hanno nessuno su cui contare”.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: