venerdì 12 febbraio 2010
Dal miracolo economico alla disoccupazione record. La recessione mina i conti pubblici. E ferisce l’orgoglio. Quattromila posti di lavoro in meno ogni giorno, senza impiego ormai il 40% dei giovani, mezzo milione di alloggi invenduti. Da economica, la crisi è ormai diventata anche politica.
COMMENTA E CONDIVIDI
La bandiera del Psoe spenzola senza vita dal balcone della sede del partito al numero 70 di calle Ferraz nel pomeriggio tinto di azzurro, mentre alla Camera il premier Zapatero affronta le bordate dell’opposizione e la perentoria richiesta del suo leader Mariano Rajoy di tagliare prebende, posti di rango, benefici postelettorali e soprattutto di cominciare finalmente a dire la verità. Perché in questa crisi che agita la Spagna senza lavoro, senza soldi e con tanti debiti, a latitare pare essere più che altro il buon senso, soppiantato da mezze parole, mezze menzogne e mezze figuracce. Tutto per evitare quella parola fatidica, "derrota", cioè sconfitta. E per non pronunciarla, la più vistosa delle cadute di stile è stata quella del ministro delle Infrastrutture e numero due del Psoe José Blanco, che ha invocato un complotto giudaico-massonico contro l’economia iberica e contro l’euro. Gli spagnoli di una certà età ricordano bene questa espressione: la usava il generalissimo Franco per stigmatizzare i nemici della Spagna e per serrare le fila del consenso. Ma oggi tutto è utile per allontanare il contagio greco, dal viaggio del ministro dell’Economia Elena Salgado a Londra alle favolose promesse del segretaro di Stato José Manuel Campa, che agli investitori della City ha dichiarato: «Possiamo abbassare il deficit dall’11,4% al 3% per il 2013», fino, appunto, al complotto contro Madrid: «Niente di ciò che sta accadendo, inclusi gli editoriali di alcuni organi di stampa stranieri, con i loro commenti apocalittici, è frutto del caso o innocente, ma risponde a interessi politici», insiste Blanco.Ma se usciamo dalle sale ovattate del Palace Hotel, dove si trama e si consumano le congiure politiche iberiche – quelle vere – ci troviamo di fronte a ben altra realtà. Come quella dipinta dall’istituto di statistica, che informa che nel 2009 si è registrato un aumento dell’80% del numero delle famiglie e delle imprese insolventi. O come i dati Ocse che confermano il tasso record di disoccupazione (19,5%), il doppio della media dei Paesi industrializzati. O anche il numero dei disoccupati, salito 4,3 milioni o quello dei poveri, vecchi e nuovi, che supera gli 8 milioni, un quinto esatto della popolazione spagnola. Per non dire del settimo trimestre consecutivo di recessione.È con queste cifre raggelanti che José Luis Zapatero detto "Bambi", il volto nuovo e telegenico del socialismo europeo, deve combattere. Cifre che ne hanno generate altre, tutte assai poco lusinghiere: la sua popolarità è in caduta verticale, il 55,5% degli spagnoli non vuole che si ripresenti alle politiche del 2012, il suo rivale Rajoy è cresciuto di 6 punti, il 74% è contrario all’aumento da 65 a 67 anni dell’età del pensionamento e secondo il quotidiano "Publico" perfino l’imbolsita sinistra sindacale è pronta a uno sciopero generale se si tocca l’età pensionabile. «Se si votasse oggi – dice la Sigma Dos – il Psoe perderebbe con il 37,7%, contro il 43,5% del Partido Popular»: un ribaltamento perfetto del voto delle politiche del 2008 che riconfermò Zapatero per il suo secondo mandato. Ma fino a ieri la parola d’ordine del Psoe era: "esconder la verdad", occultare la verità.Ma come è potuto accadere tutto ciò? Cosa ha portato la Spagna – che fino a pochi mesi fa vantava orgogliosa il sorpasso strutturale e non episodico sulla ricchezza pro capite italiana, che dal 1994 al 2006 era cresciuta a livelli impetuosi, che reclamava una seggiola tutta per sé al G8 – a passare da eccedenze di bilancio a un deficit 2009 dell’11,4%, con un debito pubblico previsto per il 2012 al 74%, ovvero praticamente il doppio? Che accade a questo Paese che per tirare fuori il capino dall’alluvione dei debiti è costretto a progettare tagli per 50 miliardi della spesa pubblica nei prossimi 3 anni e una dolorosa riforma delle pensioni, ma al tempo stesso è costretto a prorogare per altri 6 mesi gli assegni disoccupazione di 426 euro mensili a circa 200 mila persone?La diagnosi è nota. Galvanizzata da un boom immobiliare senza precedenti che ha cementificato centinaia di chilometri di coste e trasformato le grandi città come Madrid, Barcellona, Siviglia, Malaga, Saragozza, Oviedo in cantieri permanenti, l’economia spagnola è cresciuta vertiginosamente grazie anche a manodopera a basso costo (fatta in buona parte di immigrati) e ai cospicui investimenti stranieri poggiando su due gambe soltanto, l’edilizia e il turismo. Ma come tutti sanno non bastano due gambe a reggere un tavolino. Il turismo, punto di forza tradizionale, ha perduto terreno. L’edilizia – ma diremmo meglio: la speculazione immobiliare – ne ha perduto drasticamente di più. Complice la crisi dei mutui subprime innescata nel 2007, certo, ma non è stato solo il collasso della Lehman ad aver sgonfiato questa Spagna che si dilatava orgogliosa come la rana di Fedro. In realtà si costruiva troppo, si ristrutturava in modo insensato, perché quel boom edilizio era destinato a far felici migliaia di turisti inglesi, tedeschi, francesi, russi e a riempire contemporaneamente le casse di quella specie di gigantesco Piano Marshall iniziato anni prima con la costruzione della prima serie di villette a schiera sulla Costa del Sol.Il risveglio è stato più amaro del previsto. Ora le abitazioni invendute sono più di cinquecentomila, i posti di lavoro perduti quattromila al giorno, la disoccupazione giovanile al 40%, i prezzi al consumo in caduta libera. Ma la macchina edile non si ferma: nel tentativo di tamponare l’emorragia il governo ha finanziato migliaia di piccole opere pubbliche: rifacimento di aiuole, marciapiedi, condutture dell’acqua potabile, creazione di rotonde, secondo il felice modello del catalano Gaudì, per consentire alle imprese di non fallire. Ma non è servito. Impaurite dalle insolvenze, le banche cominciano a negare il credito. Le imprese chiudono, l’indotto soffre, la ricchezza fondata sul mattone si dilegua. Ma Zapatero continua a negare l’evidenza: «Usciremo dalla crisi a testa alta», ripete nel suo mantra di leader frastornato, fingendo di non vedere che di tutte le nazioni europee la Spagna è l’unica che rimane in recessione e non accenna a crescere. E a chi prova a eccepire, dentro e fuori il partito, Zapatero dà – o meglio dava – del traditore, del disfattista, dell’antipatriottico. Ora è costretto a guardare in faccia la realtà. E a riconoscere che la cura perfetta per la Spagna – il grande malato d’Europa  che gli inglesi hanno incluso nel maligno acrostico "Pigs" (cioè "maiali"), insieme a Portogallo, Grecia e Irlanda – di fatto nessuno la conosce: un po’ di Keynes, un po’ di statalismo, un po’ di riformismo. Ma basterà a far sparire quelle file dignitose di impiegati disoccupati che vanno a chiedere rinforzi alimentari alla Caritas? O quell’orda di giovani che consuma il tempo senza lavoro? Forse la cura suggerita dall’Unione europea servirà a mitigare le cifre del deficit e a rimettere in linea Madrid con i parametri di Maastricht. Certo non potrà compiere in un giorno il miracolo di cancellare lo spettro sempre più minaccioso della povertà, il vero male oscuro della Spagna.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: