venerdì 22 gennaio 2010
Rotta per gli Usa con imbarcazioni di ogni tipo. Ma Washington è pronta a fermare tutti. In bus e ambulanza si cerca di raggiungere Santo Domingo.
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«Si Dye vlè, si Dye vlè». Per ogni strappo che dà alla cima che tiene mala­mente assieme quel canotto im­provvisato la ragazza ripete il suo mantra, «Si Dye vlè, si Dye vlè», nel­la ruvida lingua creyote: se Dio vuo­le. Si chiama Apostole, dice il nostro interprete, dichiara di avere 21 anni, ma la tragedia sembra averglieli rad­doppiati. E ci vuole della follia di­sperata per fare quello che Apostole sta facendo: mettere in mare un’im­barcazione di fortuna, affrontare le acque caraibiche, circumnavigare Haiti e puntare verso Nord, dop­piando Cuba, fino a vedere le coste della Florida. Perché questa – mentre ancora ieri mattina un paio di scosse di media intensità spargevano il panico a Port­au- Prince – sembra essere diventata la parola d’ordine che dilaga oggi ad Haiti, nello slum di Cité Soleil come sulle alture di Petion Ville, al porto come nelle baraccopoli disperate vi­cino alla sede della missione Onu: fuggire, andarsene via ad ogni costo. È una pulsione violenta, irrazionale, che come la faglia spezzata dal ter­remoto lacera la coscienza: la mag­gioranza degli abitanti resta inchio­data in quei due o tre metri quadra­ti scarsi che ciascuno si è guadagna­to nei parchi, nelle zone erbose, là dove è stato possibile improvvisare una tenda nell’attesa che arrivino quelle vere, bloccate da giorni nel­l’aeroporto. Ma una robusta mino­ranza di haitiani cerca la via di fuga. In almeno tre modi. Apostole ha scelto quello più ri­schioso, lo stesso dei 'balseros' cu­bani che negli anni Ottanta e Novanta a frotte si gettavano in mare a volte con zattere ricavate dalle ante di un armadio con sotto un paio di pneu­matici di camion. Il sogno sembra a portata di mano. Un ferry haitiano sta ancorato nella rada di Port­au- Prince e – a quanto si ca­pisce – attende istruzioni dal governo. Quanto basta per­ché – sotto l’occhio spietato della Cnn – una folla di di­sperati stia cercando di raggiungerlo con ogni mezzo, un arrembaggio verso l’ignoto sufficien­te però a nutrire l’illu­sione di essersi lascia­ti alle spalle l’orrore del 12 gennaio. Ma Apostole non ci crede. Non cre­de che quel ferry porti gli haitiani ver­so la terra promessa, lei vuol fare da sé, raggiungere davvero l’America, da sola. Come i 'balseros', come i boat people vietnamiti. Non abbiamo cuore di dirle che al largo della costa i megafoni delle motovedette ameri­cane già di prima mattina avvertono i naviganti che (la nota è del Diparti­mento di Stato) «impediranno senza eccezione alcuna che i cittadini hai­tiani pretendano di entrare illegal­mente negli Stati Uniti». E che, nel caso, la loro destinazione sarebbe – dice sempre la nota di Washington – Guantanamo, non Miami. Lasciamo con il cuore svuotato Apo­stole e il suo sogno e approdiamo a un secondo girone della speranza. Un girone che qualche chance la as­sicura e per questo costa caro. Pun­tuale in ogni evento catastrofico, un mercato turpe quanto remunerativo ha immediatamente preso forma. Da giorni infatti prospera un business non molto diverso da quello dei trafficanti di uomini sulle coste mediterranee: si prende il sangue di un animale morto, lo si spal­ma sul corpo e su delle bende, ci si affolla in un’ambulanza o su un camion e si parte verso Jima­ni, la frontiera dominicana. Ci so­no i posti di blocco, è vero, ma chi i­spezionando un mezzo di fortuna lo fermerebbe per controllare se quel sangue dei feriti è vero oppure no? «Una volta che arrivi di là – spiega la mia guida – butti via le bende ed è difficile che ti trovino. Di haitiani a Santo Domingo ce n’è a migliaia». Per non parlare di quelli illegali, che so­no più di un milione. I giornali di San­to Domingo traboccano di lettere piene di apprensione: «Di questo passo – scrivono signore preoccupa­te – finirà che gli haitiani divente­renno la maggioranza della popola­zione ». In effetti, il traffico di clande­stini esisteva già da anni. Solo che o­ra il prezzo per un passaggio cresce di giorno in giorno. E se un tempo bastava una manciata di pesos per tentare la fortuna (al massimo due­mila, neanche cinquanta dollari), o­ra ci vuole il triplo, il quadruplo, nei casi più complessi – quando c’è di mezzo un neonato o una famiglia troppo numerosa che renderebbe implausibile la messinscena dei feri­ti – anche dieci volte tanto. E cin- quecento dollari ad Haiti possono rappresentare il risparmio di una vi­ta intera. Ma per molti continua a va­lerne la pena. Il terzo girone della speranza ha del paradossale. Sulla collina di Petion Ville, in rue Magny, poche decine di metri al di sotto dell’insediamento residenziale della upper class haitia­na (che non ha praticamente subito alcun danno dal sisma), c’è una sta­zione della Caribe Tours, compagnia di autobus che fa la spola fra Port au Prince e Santo Domingo. Il biglietto in sé non è caro, 68 dollari. Ciò che è diventato impossibile è procurarse­ne uno. Perché per gli haitiani che possono permettersi un passaporto, quella è l’unica via legale possibile per raggiungere la Repubblica Do­minicana con visto turistico. Una fol­la enorme preme attorno al cancel­lo azzurro di quella che era e rimane una piccola agenzia di viaggi e che o­ra viene difesa dalla polizia armi in pugno. «Mi chiamo Marion, ho una cugina a Santo Domingo. La mia casa non è crollata, ma non posso andare al la­voro, faccio fatica a trovare da man­giare, ho paura per mia figlia, temo un’epidemia. Per questo vorrei an­darmene per un po’. Ma chissà quan­do potrò farlo». Nemmeno i gendar­mi riescono a incolonnare la folla che preme al cancello. Ci riesce invece Madame Dubreaux, che dirige l’a­genzia con il piglio dei condottieri. La sua voce prodonda, imperiosa, scatta di rabbia quando nessuno vuol lasciar passare davanti una ragazza malata: «Ma non vi vergognate? Non siete in grado di cedere un posto?» La folla ammutolita apre un varco. Sul bus di mezzogiorno – ma gli ora­ri non esistano praticamente più – la ragazza, che ha in braccio un bimbo, potrà partire. E avrà una speranza concreta di non essere respinta alla frontiera dominicana. Si Dye vlè.
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