sabato 11 settembre 2010
In cinquanta milioni si pronunceranno sul "pacchetto" voluto fortemente dall'Akp. Secondo l’esecutivo la nuova Carta sarà un importante passo in avanti verso la completa democratizzazione del Paese. Per l’opposizione in gioco ci sono il potere di esercito e magistratura.
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La Turchia fa i conti con il suo passato, il premier islamico-moderato Recep Tayyip Erdogan rischia la faccia. Domani quasi 50 milioni di cittadini turchi si recheranno alle urne per votare il referendum più importante nella storia della Repubblica moderna. Con la consultazione gli elettori decideranno se emendare alcune parti della Costituzione del 1982, figlia del colpo di Stato del 1980, di cui proprio nel giorno del referendum ricorre il trentesimo anniversario. Il pacchetto è stato fortemente, e unilateralmente, portato avanti dall’Akp, il Partito islamico moderato per la Giustizia e lo sviluppo, che dal 2002 detiene la maggioranza nel Parlamento turco. Non così numerosa però da fare approvare gli emendamenti direttamente dall’assemblea, senza ricorrere alle urne. Gli articoli emendati in via definitiva o provvisoria sono 22. Secondo l’esecutivo, se approvata, la nuova Costituzione sarà un importante passo in avanti verso la piena democratizzazione del Paese e l’Unione Europea. Non la pensa così l’opposizione, secondo cui il prevalere del sì permetterà a Recep Tayyip Erdogan di limitare il potere della magistratura e dell’esercito, esponenti della parte più laica dello Stato, che da sempre nutre scetticismo nei confronti dell’operato dell’esecutivo.In realtà il pacchetto non va al voto come il premier avrebbe voluto. Rimane fuori parte della riforma della giustizia, bloccata il 7 luglio scorso da una sentenza della Corte costituzionale. Ma soprattutto mancano tutti gli articoli che dovevano cambiare la legge della chiusura dei partiti da parte della magistratura, particolarmente cari a Erdogan, dopo che la sua formazione, nel 2007, aveva rischiato di venire bandita dalla vita politica.La posta in gioco per il primo ministro rimane comunque altissima. La riforma della legge madre dello Stato turco infatti era il fiore all’occhiello del programma dell’Akp durante la campagna elettorale prima del voto politico del 2007. Un fallimento del referendum vorrebbe dire la crisi di governo e il possibile ricorso al voto anticipato. Il problema è che Erdogan non può accontentarsi nemmeno di una vittoria con scarto minimo, perché agli occhi dei suoi detrattori significherebbe la spaccatura definitiva del Paese e un serio avvertimento in vista del voto politico del 2011, dove l’Akp potrebbe trovarsi a dover dividere la formazione del governo con altri, ponendo fine, dopo quasi 10 anni, a quello che per molti è un vero e proprio strapotere. Maggioranza e opposizione lo sanno fin troppo bene e per questo hanno dato vita a una campagna referendaria molto dura e basata più che sui contenuti sull’attacco personale. La minoranza in particolare ha accusato il leader islamico-moderato di aver cercato un accordo segreto con il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, dal 1984 impegnato in una guerra con lo Stato turco, pur di assicurarsi i voti della minoranza curda, dove si concentra la maggior parte degli indecisi e che potrebbe diventare l’ago della bilancia. I sondaggi sono più incerti che mai, ma sembra certo che, nella migliore delle ipotesi, il premier possa arrivare a ottenere una vittoria con il 55%. Sufficiente per cambiare la Costituzione, ma anche per avvelenare l’equilibrio interno dello Stato e rendere in salita la strada verso le elezioni.
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