martedì 22 settembre 2009
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C'erano tutti, a San Paolo fuori le Mura. C’erano le madri e le mogli dei morti accanto ai compagni dei caduti. C’erano i generali e i caporali. C’era la Chiesa. E c’era la gente di Roma, fuori, tanta, sotto a un cielo di pioggia. C’era Napolitano, che domenica, al Celio, aveva voluto toccare ad una ad una le bare, in un saluto da padre. C’erano Berlusconi, Fini, Bossi, Calderoli, Franceschini, D’Alema, Casini, vicini, tutti in abito blu, silenziosi, concordi nell’omaggio alle sei bare fasciate dalla bandiera. C’era un bambino, Martin, 7 anni, figlio del capitano Antonio Fortunato, che alla fine ha voluto accarezzare la bara del padre. C’era il Paese intero, alla basilica di San Paolo. Come nella domanda, nel sogno di una Italia concorde almeno su poche cose importanti. Nel desiderio di una vita di pace per sé e per gli altri popoli, di una fatica comune da compiere, di una eredità buona da lasciare ai propri figli.Figli, come quel Martin vicino all’altare, che non smetteva di oscillare i piedi, penzoloni dalla sedia; come fanno i bambini, quando devono stare troppo a lungo fermi, mentre le gambe hanno voglia di correre. Quel ragazzino accanto alle bare, sotto agli occhi di ministri e presidenti: quasi a ricordare a tutti che il fine e lo scopo di ogni potere è, in realtà, nel lasciare a chi viene dopo una memoria, e la speranza di un vivere migliore.C’era anche, tra i familiari che si stringevano fra loro nella vastità della basilica, una donna con i capelli grigi, la madre del parà Roberto Valente. Anche sul suo volto gli occhi dei presenti, e le telecamere, continuavano a indugiare. Era il volto di una donna che, prossima alla vecchiaia, ha perso ciò che ha di più caro; e così mutilata tuttavia resta in piedi, e affronta il funerale di suo figlio. Una donna che, come insensibile allo sfilare di generali e ministri, non ha smesso un minuto di pregare. Con le mani giunte, assorta, e nella Messa rispondendo puntualmente al celebrante; sola nel suo dolore abissale, eppure strenuamente attaccata a quelle preghiere che fra sé continuava a mormorare. C’erano poi, a San Paolo, altri volti su cui gli sguardi tornavano. Quello di Napolitano, alto, un po’ curvo, austero. Il presidente, che nelle reazioni emotive delle prime ore dopo la strage ha ricordato: in Afghanistan bisogna restare. E il volto del celebrante, monsignor Pelvi, che nei paramenti viola del lutto spiegava la «responsabilità di proteggere» anche «i più flebili segni di democrazia», in un Paese lontano. E dunque – bambini, madri, ragazzi, istituzioni – a San Paolo fuori le Mura c’era un bel pezzo di Italia; ma, come in un sogno pure doloroso, sembrava un’Italia coesa, tenuta insieme, attorno a quelle bare, da un desiderio comune. Né il grido di uno sconosciuto, quel "Pace subito!" urlato sotto l’altare, ha spezzato il legame che per un giorno sembrava ricondurre chi c’era, e chi stava a guardare, come a un comune denominatore; come al senso di ciò che vorremmo per i nostri figli, e forse non sappiamo più dare. Già, "pace subito!". Pace nel senso di starcene in pace, di tornare a casa da quel deserto feroce che è l’Afghanistan, di tirarcene fuori. È la pretesa di chi non capisce: come si può morire per un popolo così diverso e lontano? È l’ordinario militare a ricordare agli italiani che «se uno Stato non è in grado di proteggere la popolazione da gravi e continue violazioni dei diritti umani, la comunità internazionale è chiamata a intervenire». Un’altra globalizzazione oltre a quella dei mercati e dei consumi; un altro sguardo, oltre ai ristretti confini.Antonio, Davide, Giandomenico, Massimiliano, Matteo, Roberto. Monsignor Pelvi li chiama uno per uno. Di ciascuno ricorda un tratto: Fortunato, il gigante buono, Davide, quello che scherzava col cappellano su cosa c’è davvero, in paradiso. Chiamare ciascuno per nome: antico retaggio cristiano, cultura appassionata per l’altro, sempre diverso, infinitamente prezioso. E sta, la folla, tra gli ori della basilica, zitta a ascoltare l’appello: che chiama, all’apparenza, dei morti, eppure ha l’accento certo di chi sa di non parlare nel nulla. (Le mani della signora Valente che non smettono di pregare, congiunte; le mani di una parente, accanto, serrate forte su un rosario). Dei Rambo, dei mercenari, o dei poveri disoccupati del Sud che solo col fucile in mano han trovato un lavoro, è il coro ostile che qui in basilica tace, ma nel Paese esiste. «Meno sei», hanno scritto sui muri di Milano. A fare cosa, in Afghanistan? Lo spiegava con semplicità in un’intervista, due mesi fa, uno dei ragazzi morti: «Io sto sull’autoblindo, di torretta, e fermo le auto sospette». Coperti della polvere rossa di Kabul, in colonna, lungo le strade, a fermare le stragi. Può costar cara, terribilmente cara la pace.Un compagno ferito nell’attentato va ad abbracciare, alla fine, la signora Valente, come un figlio. In quella donna l’icona delle madri che abbiamo a casa, fiduciose nel bene, ad aspettare. La gente di Roma ha appeso le bandiere ai balconi, ha abbracciato i caduti, e s’è commossa al passare delle Frecce tricolori che hanno lasciato tre larghi solchi – verde, bianco, rosso – nel cielo. Le note del Silenzio, il saluto militare, l’avanzare lento dei compagni col feretro sulle spalle. Si arrotolano le bandiere e si torna a casa. Le auto blu, via di fretta. Ma ricordiamoci di quel ragazzino accanto alla bara di suo padre. È per i figli come lui, che viviamo. Potesse quest’ansia di un’Italia concorde almeno su poche grandi cose, generata dalla morte di sei ragazzi, restarci dentro più a lungo di quello splendido tricolore di fumo, subito sciolto nel cielo sopra a Roma.
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