sabato 6 gennaio 2018
Lo Stato della capitale, per la prima volta in America Latina, introduce la norma dell’assegnazione ai cittadini delle confische. L’esperienza dell’Italia è stata l’esempio. «I militari non bastano»
Città del Messico ci prova: restituirà i beni dei narcos
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«Le autorità adotteranno misure amministrative, legislative, di bilancio e giudiziarie» al fine di «smantellare la struttura patrimoniale della delinquenza, garantendo il riutilizzo sociale dei beni» confiscati. La “rivoluzione” nella lotta alla criminalità organizzata è partita da Città del Messico. La capitale, due anni fa, è diventata a tutti gli effetti uno dei 32 Stati che compongono la Repubblica messicana. Come tale, si è dotata di una propria Costituzione, che entrerà in vigore a settembre. È quest’ultima a sancire, per la prima volta in Messico e in America Latina, il principio della restituzione alla comunità dei beni sottratti alle mafie. Il «riutilizzo sociale», appunto. Non si tratta di una questione di poco conto per una delle nazioni epicentro del narcotraffico mondiale. Una piaga che, negli ultimi undici anni, i successivi governi – di diverso orientamento politico – hanno scelto di affrontare “manu militari”.

Nel senso letterale del termine. Nel 2006, l’ex presidente Felipe Calderón ha dispiegato l’esercito in funzione anti-crimine. Il successore, Enrique Peña Nieto, lo ha ritirato, salvo poi riportarlo per le strade, attribuendogli funzioni di polizia, con la recente legge per la sicurezza. Approvata a dicembre nonostante le critiche dell’Onu, la Corte interamericana per i diritti umani e gli attivisti. E nonostante l’evidente inefficacia della strategia. L’impiego dei militari ha fatto crescere esponenzialmente la violenza: nel 2017, si è raggiunto il tragico record di duemila morti ammazzati al mese. In compenso, la potenza dei narcos non solo non è diminuita. Bensì è cresciuta: interi pezzi di istituzioni – e di Paese – sono nelle loro mani.

«È, dunque, il momento di cambiare strada. E di affrontare il nocciolo del problema: lo smantellamento patrimoniale delle reti politiche- criminali-imprenditoriali. Cioè colpire le mafie là dove fa loro più male: il portafoglio. Per sconfiggerle è necessario sottrarre loro le risorse con cui comprano gli arsenali, corrompono i funzionali, pagano gli eserciti di sicari», spiega ad Avvenire, Carlos Cruz, presidente di Cauce Ciudadano. L’organizzazione è uno dei pilastri di Red Retoño, referente messicano di “Alas-America Latina alternativa social”, la rete antimafia in America Latina, coordinata da Libera. Proprio l’esempio italiano ha mostrato a Cruz – uno dei 66 costituenti incaricati di scrivere la Carta fondamentale di Città del Messico – la cen- tralità del riuso sociale dei beni confiscati nella lotta al crimine.

«C’è, in primo luogo, l’aspetto economico. Gli arresti eccellenti – la storia recente lo ha dimostrato – non bastano, da soli, a sconfiggere i narcos. Catturato il capo, il gruppo non scompare perché la struttura ha le risorse per restare in piedi. La lotta deve, dunque, concentrarsi su queste ultime: senza denaro, la mafia non può andare avanti», afferma Cruz, impegnato nel riscattare i giovani dalle reti delle mafie, dopo un passato da pandillero (esponente di una gang). Non è, però, sufficiente, sequestrare i beni ai cartelli della droga. È fondamentale assicurarsi che non tornino ai narcos per «vie traverse», mediante prestanome. Il modo più sicuro, data la corruzione imperante, «è la consegna di quelle risorse alla comunità».

C’è, inoltre, un potente aspetto simbolico. I narcos spesso elargiscono «briciole» alla comunità come regalia, per dimostrare il loro potere. «L’uso sociale – conclude – svela l’inganno, affermando il diritto all’intero corpo sociale, razziato dal crimine, di essere risarcito. Per tale ragione, la Costituzione di Città del Messico rappresenta una svolta. La sfida ora è far entrare tale principio nella leggi nazionali del Messico e del resto dell’America Latina».

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