martedì 31 ottobre 2017
Dal congolese Mobutu al filippino Marcos, è lunga la lista dei "clienti pericolosi" dell'avvocato incriminato per il Russiagate. Tra i suoi legami anche quello con l'ex presidente ucraino Ianukovich
Paul Manafort (Ansa)

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Ha attraversato quattro decenni di politica americana e avuto per clienti anche alcuni tra i peggiori dittatori a livello internazionale, dal congolese Mobutu al filippino Marcos, dal nigeriano Sani Abacha fino al guerrigliero angolano Savimbi. Senza contare gli oscuri contatti in Russia e Ucraina, dove ha lavorato per Viktor Yanukovych, il presidente filorusso deposto dalla rivoluzione del Maidan. Paul Manafort, 68 anni, primo incriminato del Russiagate insieme al suo vice Rick Gates, è l’uomo che potrebbe inguaiare Donald Trump, di cui per tre mesi ha gestito la campagna elettorale nel 2016.


Avvocato, lobbista, Manafort ha fondato la sua società di consulenza politica nel 1980 con alcuni soci, tra cui Roger Stone, per ora solo sfiorato dal Russiagate. Prima di approdare alla corte di Trump, aveva collaborato con tre presidenti repubblicani, Gerard Ford, Ronald Reagan e George Bush senior. Negli ultimi dieci anni ha fatto continuamente avanti e indietro tra gli Stati Uniti e l’Ucraina, dove inizialmente si era stabilito a Donetsk, la città del magnate delle acciaierie del Donbass, Rinat Akhmetov, legato al Cremlino. L’obiettivo di Akhmetov era di far crescere ancora i suoi affari all’estero, e Manafort, con i suoi contatti a Washington e la sue fitte conoscenze, all’estero era l’uomo giusto. E’ tramite lo stesso Akhmetov che Manafort conosce Ianukovich, che godeva dell’appoggio finanziario del magnate. Il rapporto tra Manafort e il filorusso Ianukovich, rinsaldato da milioni di dollari intascati per le consulenze, cresce e si rafforza: c’è la mano del lobbista americano dietro l’ascesa di colui che tra il 2010 e 2014 sarà presidente dell’Ucraina.

Nato nel 1949 in Connecticut, nonno di origini italiane, ottimi studi alla Georgetown University, Manafort ha ammassato nella sua carriera una fortuna da decine di milioni di dollari. La sua società, oltre a inserirsi nei gangli del potere del partito repubblicano, da sempre ha avuto tra i suoi clienti imprenditori d’assalto (i critici li definivano, meno benevolmente, senza scrupoli) ed è diventata nota nel suo ambiente per aver curato gli interessi di quella che il Center for Public Integrity definì “lobby dei torturatori”. In un rapporto di questa organizzazione non profit, datato 1992, la società di Manafort veniva definita come quella che più aveva tratto profitto dai suoi affari con governi stranieri accusati di violare i diritti umani.


Nella “lobby” figurava ad esempio il guerrigliero Jonas Savimbi, leader dei miliziani angolani dell’Unita: l’incarico affidato a Manafort era di fargli ottenere fondi dagli Usa per alimentare la guerra civile e arrivare al potere, obiettivo peraltro raggiunto. Savimbi, che secondo Human Rights Watch era protagonista di abusi di diritti umani, venne definito da Reagan addirittura “un eroe che lotta contro l’impero del male”, cioè l’Urss. Tra i suoi clienti, Manafort annoverava già il dittatore dell’allora Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo) Mobutu Sese Seko. Di lui non si contano gli omicidi politici, le detenzioni degli oppositori, gli stupri ordinati ai suoi miliziani.


Sempre per restare in Africa, Manafort nel 1998 diventò consulente del generale nigeriano Sani Abacha, uomo forte di un regime violento e corrotto che puntò anche ad eventuali aiuti della Casa Bianca per "sviluppare la democrazia". E chi meglio di Manafort, con i suoi contatti, le sue entrature, per avvicinare il potere Usa? D’altronde a lui, nel 1985, si era rivolto anche il dittatore filippino Ferdinand Marcos, inserito da Transparency International nella lista dei dittatori più feroci. A Manafort, Marcos aveva chiesto appoggio per la Camera degli imprenditori ed esportatori delle Filippine, a lui personalmente legata.


Insomma, prima di Trump, la lista di clienti del lobbista non era delle più "pulite". L’attuale presidente Usa lo aveva già ingaggiato in precedenza per i suoi alberghi, su questioni fiscali e gioco d'azzardo. Dopo il licenziamento di Corey Lewandoski, Manafort a giugno 2016 fu promosso da Trump a capo della sua campagna elettorale, con il controllo delle operazioni quotidiane, di un budget da 20 milioni di dollari, delle scelte più importanti, della pubblicità e della strategia mediatica. Insomma, una figura centrale e potentissima. In questa veste partecipò nello stesso mese anche al controverso incontro tra Donald Trump junior e un'avvocatessa russa legata al governo di Mosca che aveva promesso informazioni compromettenti su Hillary Clinton, rivale di Trump nella corsa alla Casa Bianca. Ma Manafort fu costretto a dimettersi il 19 agosto, dopo le rivelazioni sulla sua lunga attività di lobbying a favore dell’ucraino Ianukovich e del suo Partito delle Regioni, per la quale avrebbe ricevuto oltre 12 milioni di dollari in nero.


In precedenza, Manafort aveva lavorato anche per l'oligarca russo Oleg Deripaska, considerato vicino a Putin, anche per promuovere gli interessi di Mosca nel mondo politico, economico e mediatico negli Usa e in Europa. Il tutto senza mai essersi registrato, salvo retroattivamente, come agente straniero, sulla base di quanto prevede la legge americana per chi fa lobbying per Paesi stranieri. Ma dopo le incriminazioni per il Russiagate, a ben vedere, questo sembra essere ora solo uno dei suoi problemi.

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