
Friedrich Merz - Reuters
Si era proposto come uno “sceriffo” in grado di affrontare a muso duro quello che un tempo era l’inossidabile alleato americano e insieme fare i conti con una macchina di consensi come Alternative für Deutschland, il gruppo “sovranista-illiberale” di Alice Weidel che ad eccezione di Berlino miete consensi in tutti i Länder dell’ex-Ddr. Ma al posto di Wyatt Earp, l’eroe dell’Ok Corral, i tedeschi si sono ritrovati un Friedrich Merz passato per il rotto della cuffia alla seconda votazione dopo un’umiliante bastonatura al Bundestag. Uno sceriffo se non dimezzato, certo consapevole che la sua “Kleine Koalition” (“Grosse” è aggettivo esagerato per quell’affaticato sodalizio Cdu/Cs/Spd che i Linke, i verdi e la stessa Afd giudicano debolissimo) si regge su un pugno di voti – 325, solo 9 in più della maggioranza richiesta – che oggi c’è e domani non si sa.
Si sa invece che per Merz comincia una strada in salita. I suoi avversari d’oltreoceano si chiamano J.D. Vance, Elon Musk e Marco Rubio, apostoli di quel Maga che grazie a Donald Trump ha frantumato ogni regola.
E lì, sul mercato interno bucherellato di dazi americani, che Merz, eletto Bundeskanzler dopo lo schivo e nebuloso leader Spd Olaf Scholz, dovrà cominciare a lavorare in proprio. In primis con il riarmo nazionale, inquietante riedizione della corsa agli armamenti avvenuta all’indomani del Trattato di Versailles novant’anni fa, in parte contrabbandato come un aggiustamento strategico alla debolezza del mercato delle automobili in profonda crisi. Del resto, cosa dovevamo aspettarci da un fervente anticomunista, ordoliberista e autore di un significativo pamphlet dal titolo Mehr Kapitalismus wagen (grosso modo: “il capitalismo osi di più”) come Merz?
Cattolico, tecnocrate, ambizioso, un posto al sole nei consigli di amministrazione di mezza Germania, il nuovo cancelliere che la Merkel detestava ma che infiammava d’orgoglio il suo padrino Wolfgang Schäuble, dovrà vedersela con i dazi ballerini di Trump e la filistea indignazione della Casa Bianca di fronte alla possibile messa al bando di Afd, che i Maga-boys definiscono nientemeno che «un attacco estremo alla democrazia».
Afd, appunto. Il grande avversario interno e il perno attorno al quale rischia di ruotare quell’altra Europa che si raduna attorno a figure come l’ungherese Viktor Orbán e che strizza l’occhio a giganti populisti come il Rassemblement National di Marine Le Pen, o ai nazional-sovranisti di Salvini, gli spagnoli del leader di Vox Santiago Abascal e – probabile new entry – i rumeni del giovane George Simion, leader del partito nazionalista Aur, un ex-hooligan anti-Ue e anti-Nato e sostenitore dichiarato di Trump, che riconferma la svolta a destra di Bucarest dopo l’annullamento delle elezioni di novembre, cui possiamo aggiungere l’arrembaggio alle urne della destra populista di Nigel Farage nel Regno Unito.
È in questo suk di tribalismi politici che il nostro Merz dovrà far vedere di cosa è capace. Nel recente passato aveva tentato più di un inciucio con «i deprecabili estremisti di Afd» (al momento in sospeso per il verdetto della “Verfassungsschutz” su cui pende un ricorso), vellicandone gli appetiti, come quando bollò i profughi che bussano alle porte della Germania come “turisti sociali” e i migranti come “straripanti consumatori di bonus sanitari”.
Risultato: Afd continua a crescere, gli altri stanno fermi. In questa sua “Germania Anno Zero” Merz già non cela il proposito di ricondurre il Paese di Goethe e Schiller a quel ruolo di locomotiva d’Europa che storicamente gli compete. Un ruolo che nessun altro nella sfilacciata pattuglia europea – neppure un altro leader in crisi di idee come Emmanuel Macron - è minimamente in grado di assumere.
Per il suo commiato, Scholz ha scelto tre brani: “In My Life” dei Beatles, un estratto dal Secondo Concerto Brandeburghese di Bach e “Respect” di Aretha Franklin, omaggio al suo slogan elettorale del 2021, “Rispetto”.
Lo “sceriffo” Merz invece dovrà intonare ben altra musica per far ripartire la locomotiva tedesca. Il cui carbone saranno in parte le armi di Rheinmetall e in parte la ridefinizione dei rapporti con i partner economici mondiali. Per un Paese che aveva affidato la propria sicurezza agli Stati Uniti investendo la propria forza prima nel mercato comune e poi nella moneta unica, è quasi una rivoluzione copernicana.
Un fatto comunque è certo. Tutti noi, europeisti, democrazie liberali, alleati nella Nato, saremo costretti a marciare al suo passo. Che locomotiva sarebbe, altrimenti?
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