sabato 1 aprile 2023
L’accesso per tutti all’istruzione, in Cisgiordania come in Israele, è la chiave dei progetti che si sviluppano intono alle nuove generazioni. «Quello che hanno smarrito è la speranza»
Un gruppo di ragazzi palestinesi cammina verso la scuola, lungo la Paul VI Street nel cuore di Betlemme

Un gruppo di ragazzi palestinesi cammina verso la scuola, lungo la Paul VI Street nel cuore di Betlemme - .

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La solidarietà non ha confini. E non bisogna dimenticare le guerre già in corso, oltre alla tragedia ucraina. Per questo l’impegno di Caritas Italiana e Focsiv si rivolge all’area del Medio Oriente, dalla Giordania all’Iraq, dal Libano alla Siria, fino alla Terra Santa Israele e Territori Palestinesi e alla Turchia. Anche dopo la maratona su Tv2000 la campagna «La pace va oltre» proseguirà con anche l’impegno di “Avvenire”: sarà possibile finanziare i progetti promossi da Caritas e Focsiv in sette Paesi donando online tramite il sito “insiemepergliultimi.it”, oppure attraverso bonifico bancario (Iban IT87T0501803200000 016949398 di Banca Etica intestato a FOCSIV Campagna Focsiv-Caritas) o c.c. postale 47405006
intestato a Focsiv (Causale: FOCSIVCARITAS ITALIANA – Insieme per gli ultimi.

Il vento gelido di questo avvio di primavera – principio di Ramadan e vigilia di Pesach ebraica e cristiana – sferza la collina del Getzemani. I clamori degli scioperi contro la riforma della Giustizia, per ora “congelata” da un sempre più inquieto Benjamin Netanyahu, come le voci su future nuove coalizioni di governo con l’alleato rivale degli ultimi due anni, Benny Gantz, non scalfiscono il silenzio del biblico “orto”, dove gli ulivi secolari – certo non solo loro – aspettano i germogli di una nuova stagione.


Una luce di speranza
«Non si possono certo obbligare i palestinesi, in particolare i cristiani, a restare. Nei Territori occupati, più che altrove, non sono garantiti i diritti essenziali. Quello che cerchiamo di fare come Caritas è di “ripiantare la speranza”», spiega nel suo ufficio al Nôtre Dame center Anton Asraf, il direttore di Caritas Gerusalemme. Perché, malinconico refrain di tutto il Medio Oriente, quello che è andato smarrito per i giovani arabi cristiani è il futuro: «Prima di Natale, visitando con il patriarca latino Pizzaballa la nostra scuola materna a Gaza, di certo l’area più disastrata, una bambina mi ha confidato il suo sogno: che mia madre sia felice», racconta commosso Anton, una laurea in economia e un master in finanza in Belgio. È la condizione di «segregazione» nei Territori, acuita dalla pandemia e ora, con la guerra in Ucraina, dall’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, a rendere la speranza una sfida quotidiana.
Le Nazioni Unite stimano che siano 2 milioni i palestinesi in stato di bisogno: una cifra stabile ma il cui disagio si va approfondendo. «Noi cerchiamo di intervenire nella sicurezza alimentare, nell’educazione e nel provare a garantire una casa ai giovani». La decisione di andarsene non è solo per «l’oppressione» dei checkpoint e per i nuovi insediamenti dei coloni in Cisgiordania. Spesso si fugge da Gerusalemme Est verso i Territori: «Con un affitto come minimo di 650 dollari al mese molti cristiani sono costretti ad andare a vivere altrove». Le statistiche sono lì, a fotografare impietose questa continua perdita di futuro: se nel 1944 i cristiani erano poco meno del 50% della popolazione di Gerusalemme, nel 1967 erano il 16 %. Un numero in valore assoluto rimasto quasi costante mentre crescono le altre comunità. «Sono 12.600 i cristiani che ora vivono a Gerusalemme, 9.800 sono cristiani palestinesi. In tutto siamo l’1% della popolazione di Gerusalemme».


«Betlemme senza Pasqua»
Sempre meno numerosi. Ma, dopo i due anni di pandemia, i pellegrini sono finalmente tornati a Betlemme. «Io sono il sindaco della piazza» ti dice sorridendo Rony, proprietario di uno dei più antichi negozi di souvenir a 200 metri dall’ingresso della Basilica della Natività mentre, quasi in contemporanea, saluta pure in polacco un gruppo di pellegrini. Una attività avviata dal nonno nel 1927: «Venticinque famiglie lavorano per noi, nelle loro case». Il suo negozio è un naturale punto di ritrovo: «Certo, sono un commerciante ma più importante del prodotto per me è il messaggio» ti dice con un sorriso travolgente. «Sono un soldato della mangiatoia», un modo poetico di definirsi arabo cristiano. Tre generazioni e quasi un secolo tra rosari e statuine, oltre che informazioni e passaggi ad amici che ritornano da ogni parte del mondo: «Ne abbiamo passate tante. Il momento più difficile? Nel 2002, ero un ragazzo, quando la basilica della Natività è stata sotto assedio dei carri armati. Non sono uscito di casa per 40 giorni». Ma il momento peggiore è stato durante la pandemia: «La porta dell’umiltà è rimasta chiusa per 80 giorni, non era mai successo nella storia. Sono rimasto in casa per 100 giorni e quando sono uscito, per settimane e settimane la piazza restava vuota. Credevo di morire», confida il “sindaco” che ora ha finalmente ritrovato i «suoi cittadini».
La gente è tornata, ma il futuro per i giovani è difficile: «Noi resteremo, le nostre radici sono qui. Ma spero che i giovani non abbiamo le nostre difficoltà, un neo-laureato non può vivere con 500 dollari al mese». È come un grido di rabbia represso quello di un uomo sulla sessantina, alto e corpulento, che ascolta il capannello spontaneo e interviene di getto: «E poi un giovane che il giorno di Pasqua da Betlemme volessse andare al Santo sepolcro a Gerusalemme non può farlo liberamente. Se è fortunato riesce a passare il checkpoint 300 con un permesso speciale». Sempre meno gli arabi cristiani. E la sensazione di essere stranieri nella propria terra.

Timori in Città Vecchia
«Negli ultimi due mesi noi cristiani abbiamo subito una decina di aggressioni, qui nella Città Vecchia di Gerusalemme, come altrove». E a memoria, ma chiedendo l’anonimato, ti snocciolano un elenco di inquietanti episodi: «Il 2 febbraio nella chiesa della flagellazione un estremista americano ha abbattuto la statua di Cristo e poi ha cominciato a colpirne il volto. E intanto gridava: non si possono avere idoli a Gerusalemme». Sul tam tam dei social era definito un «colono», un «turista americano» nel comunicato della polizia. Una ventata di intolleranza iniziata proprio a Capodanno del 2023 con la distruzione di croci e lastre di una trentina di tombe del cimitero protestante sul monte Sion. Poi scritte intimidatorie come «morte ai cristiani» sul muro di un convento armeno e a fine gennaio la spedizione punitiva di 40 coloni che hanno vandalizzato un ristorante armeno a Porta nuova. E poi, sempre nelle viuzze del quartiere armeno, sputi e spray al peperoncino contro dei sacerdoti e un vescovo. «Non è un caso che la legittimazione della discriminazione e della violenza nell’opinione pubblica e nell’attuale scenario politico israeliano si traduca poi anche in atti di odio e di violenza contro la comunità cristiana», scrisse in un duro comunicato il custode di Terra Santa padre Francesco Patton. A chiudere l’inedita sequenza di gesti di intolleranza, domenica 19 marzo l’assalto alla chiesa ortodossa della tomba della Vergine Maria da parte di due coloni mentre il 23 marzo cinque estremisti musulmani con il volto mascherato e armati di bastone hanno colpito il cancello di ingresso delle suore salesiane di Nazareth insultandole e chiedendo loro di convertirsi. Gesti di estremisti che, convinzione diffusa, dopo le elezioni del primo novembre godono di una impunità di fatto: «Gli estremisti islamici vengono subito puniti, ma queste aggressioni da parte di fanatici ebrei sono sempre attribuite a persona instabile di mente», raccontano sempre guardinghi passanti, a condizione di anonimato.

In una «borsa»
«Rispetto a un ragazzo europeo è necessario avere una marcia in più nella determinazione» confida, ben più serio dei suoi 21 anni, Laurence Sammour. Abita a 5 minuti a piedi dalla Bethlehem University, e dopo il diploma non è stato difficile per lui scegliere di frequentare l’università fondata nel 1893 dai Fratelli delle scuole cristiane e aperta a cristiani e musulmani. Decisiva, invece, è stata la borsa di studio ottenuta grazie alla Fondazione De La Salle (Focsiv). Come lui l’80% dei 3.300 studenti riesce a studiare grazie a un sostegno economico dei donatori internazionali. È la più rinomata università della Palestina e molti studenti vengono ogni giorno da Gerusalemme, attraversando in bus il muro con Israele. In Palestina il 90% dei giovani ha un titolo universitario: «Le famiglie, come la mia, fanno l’impossibile per garantire una educazione ai propri figli», conferma Laurence. Una laurea in informatica con un anno di anticipo ne fanno uno studente modello. E ora, quale futuro? «Mi voglio specializzare al Palestinian college o all’estero», afferma con una calma che dimostra una grande tenacia. «Ho scelto di studiare informatica perché è un settore creativo e con un forte impatto sia nell’economia locale che in quella globale. In Cisgiordania ci sono molte difficoltà, cerchiamo di vivere la situazione. Ma qui ho famiglia e amici. Aspetto la risposta alle domande di iscrizione, ma anche se riuscissi ad andare all’estero a specializzarmi voglio tornare a vivere a Betlemme. Un analista informatico – conclude Laurence – può lavorare in remoto con tutto il mondo». Superando il muro di separazione al confine, disparità economica e frustrazione. Tenacia, e un futuro ancora tutto da inventare.

«Senza precedenti»
«Quale immagine per definire la Chiesa di Gerusalemme? Un mezzo di trasporto traballante, nel mezzo di una strada malmessa e con il tempo avverso ma che riesce ad avanzare». Ride nel salottino rosso per gli ospiti del patriarcato latino di Gerusalemme sua beatitudine Pierbattista Pizzaballa. Visitando i progetti Caritas a Gaza prima di Natale, il patriarca latino aveva parlato della Chiesa come di una piccola lampada. «La speranza – spiega – si nutre del desiderio e della tenacia di tante persone che non rinunciano a voler pensare in maniera diversa, a voler sognare un modo diverso di vivere qui». In fondo la sfida della fratellanza universale da costruire fra ebrei, cristiani e musulmani. Da dove ripartire, ancora una volta? «Dalla vita comune. Se si parte dagli argomenti religiosi il dialogo finisce subito fra noi. E la fiducia va costruita dai bisogni della vita, dalle questioni condominiali. Questo, però, è possibile solo se c’è una leadership che aiuta non a subire la vita ma ad accoglierla in modo positivo e ad avere un approccio libero e critico in questa situazione». Inizia oggi la settimana santa: «Pasqua significa passaggio, e stiamo vivendo un passaggio unico, senza precedenti nella storia del Paese. Sarà una Pasqua celebrata con gioia che ci ricorda, tra le tante piaghe d’Egitto che ci colpiscono, che abbiamo bisogno di ricordarci che veniamo da Dio e a lui ritorniamo», conclude il patriarca di Gerusalemme.

La panchina della luce
Al Santo Sepolcro, terminato il restauro dell’edicola che custodisce la tomba di Gesù, è già un brulicare di pellegrini. E fatta la scalinata che porta al Calvario una religiosa mostra una vecchia panca di fonte al luogo della crocifissione: è quella, si dice, dove il cardinale Martini amava sostare lunghe ore in meditazione. «Da questo punto la luce della croce illumina tutto il mondo», sussurra la sorella fra le torme di pellegrini. La sorgente di luce per quella «geopolitica della misericordia» annunciata dal primo Papa gesuita. Luce, per tenere accese piccole lampade di speranza.

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