venerdì 20 novembre 2009
Scongiurata la rottura fra i Ventisette per la scelta dei vertici. La sinistra si compatta e accetta la linea britannica. Tramonta così subito la candidatura di D'Alema alla carica di Mr Pesc.
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Si farà un po’ fatica ma finiremo per do­verli imparare, questi due nomi, Ash­ton e Van Rompuy, perché saranno lo­ro a guidare l’Europa dal 2010. E se li ricor­derà bene anche Massimo D’Alema, l’uni­co per la verità a non essersi mai illuso dav­vero, ferrigno e spietatamente realista com’è. E quando il capogruppo del Pse Schulz (quello del “kapò” berlusconiano, per capirci) ha rilasciato a mezza bocca quella frase sibillina («Peccato che dietro al vostro candidato non ci sia un governo so­cialista »), anche noi, osservatori distanti e assiepati dietro al muro di parole, di mezze frasi, di monosillabi gettati al vento per ve­dere l’effetto che fa, anche noi abbiamo ca­pito che per D’Alema – e diciamolo pure: per l’Italia, prima di tutto – il sogno di Mr Pe­sc, ovvero dell’Alto commissario agli affari esteri della Nuova Europa era finito. Cadeva D’Alema e al suo posto si stagliava non senza sorpresa il nome della cinquan­tatreenne baronessa Catherine Ashton, bri­tannica, laburista, già senza troppa gloria commissaria al Commercio ed ora proiet­tata verso il vertice della diplomazia euro­pea, in grado di soddisfare la necessità di “quote rosa” e insieme di gratificare le aspi­razioni inglesi. Cadeva D’Alema e come tessere del domi­no tramontavano definitivamente le candi­dature di Tony Blair, di Moratinos, di Mili­band, di Mandelson, di tutti quei nomi sven­tagliati nelle ore della vigilia a testimoniare un grande caos dietro le quinte, così fitte di intrecci bi-trilaterali, di «pizzini» – si è per­fino detto – perché gli sherpa avevano de­ciso di non fidarsi dei telefoni cellulari e por­tavano messaggi stretti fra le dita, nell’aria tesa di Bruxelles, spazzata da un vento qua­si caldo che spolverava il cielo e faceva scin­tillare ogni cosa. Si potrà strologare a lungo sui motivi dell’u­scita di scena dell’ex segretario Ds.  C’era un veto israeliano, per esempio (e Tel Aviv ha avuto voce in questa partita), per le sue a­perture a Hezbollah e Hamas. E una sco­perta diffidenza della Merkel, imitata da Po­lonia e Ungheria. E c’era da accontentare gli inglesi. Non più mister, ma madame Pe­sc, dunque. E parallelamente all’ascesa del­la Ashton la strada verso la presidenza del­l’Unione europea per il belga Herman van Rompuy (popolare, come da accordi con il Pse, e forse erroneamente troppo sottova­lutato) appariva spianata. Che ne era allo­ra dell’asse franco-tedesco, di quei despoti o presunti tali che fanno e disfano a loro piacimento il Vecchio continente conside­randolo roba loro dai Merovingi in poi? Eb­bene, non lasciamoci ingannare dalle ap­parenze, anzi, guardiamolo attentamente questo ticket anglo-belga, segno anche di un’Europa che guarda a Nord dopo un gui­da iberica. Cosa possiamo dedurne? Che le due cariche assegnate ieri sera dal vertice straordinario dei capi di Stato e di governo sono frutto di una precisa alchimia: quella cioè di dare un profilo piuttosto basso al presidente e al suo rappresentante per gli af­fari esteri. In modo da non mettere mai in ombra figure di consolidata importanza co­me quelle di Sarkozy, del pur periclitante Gordon Brown, del rinominato Barroso e soprattutto di Angela Merkel. La quale – non avendo la Germania avanzato alcuna pre­tesa in questa disputa – potrà in seguito ag­giudicarsi la Bce e qualche commissariato di primo piano, come la Concorrenza o gli Affari economici. Rimane un doppio ma serissimo problema: con la Ashton, l’intera diplomazia europea avrà il marchio britannico, quattromila nuo­vi funzionari verrano selezionati in sostan­za dal Foreign Office. Ma il problema più delicato è lei, la baronessa che si è detta «o­norata » per l’incarico, ma che di diploma­zia non sa nulla e di politica estera ancor meno. «È lì – si maligna –, solo perché don­na. E figuriamoci quando vinceranno i con­servatori: avremo un ministro degli Esteri guidato da un governo euroescettico...». Alla luce di queste scelte, verrebbe da dire che i leader europei in questo Trattato di Li­sbona credano poco. O piuttosto che non vogliono rinunciare al primato delle singo­le cancellerie, antico ma comprensibilissi­mo vizio, che non a caso aveva ridotto la fi­gura di Javier Solana a quella di puro con­torno. Non parrebbe, visto il profilo della A­shton, che le cose siano destinate a mutare granché. «Ce lo vedete Obama che telefona a Rompuy? O piuttosto non chiamerà di­rettamente Berlino, o Parigi?», sghignazza un ministro spagnolo. Un po’ ha ragione: il vecchio teorema di Henry Kissinger («Che numero devo fare se voglio parlare con l’Eu­ropa? ») ritorna come uno spettro amletico: dall’anno prossimo si dovrà comporre il nu­mero dell’attuale premier belga, o quello della baronessa. Saranno loro due a porta­re la bandiera stellata dell’Unione europea. E dietro di loro ricomincerà il grande mer­cato delle poltrone. Oltre alla Commissio­ne, la presidenza dell’Eurogruppo, la Ban­ca centrale europea, le tante caselle da rin­novare, i tanti appetiti nazionali (italiani compresi, che a questo punto rimettono in gioco una poltrona, quella di Tajani ai Tra­sporti, probabilmente) da soddisfare. Van Rompuy ha promesso di essere un presi­dente dell’«ascolto» e di aver accettato la nomina «con entusiasmo e convinzione». Ma la vera partita delle nomine, tutti lo san­no, non è neppure cominciata.
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