mercoledì 11 gennaio 2023
L'attacco alla democrazia da parte dei bolsonaristi non è finito. Colpiti anche diversi impianti energetici. Il rischio di uno stato di tensione permanente nel Paese con gravi effetti negativi
Il palazzo presidenziale a Brasilia devastato durante l'attacco dei sostenitori dell'ex presidente Bolsonaro, sconfitto da Lula alle ultime elezioni

Il palazzo presidenziale a Brasilia devastato durante l'attacco dei sostenitori dell'ex presidente Bolsonaro, sconfitto da Lula alle ultime elezioni - Ansa

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La democrazia brasiliana è più forte o più debole? L’interrogativo tormenta analisti e commentatori dopo l’assalto alle sedi delle istituzioni a Brasilia. La risposta non è univoca. Di certo, la solidarietà interna e internazionale incassata rappresenta una finestra di opportunità per il presidente, Luiz Inácio Lula da Silva. Una folla è scesa in piazza in viarie città al grido «no al golpe». Solo a San Paolo erano in 50mila e, ai cortei hanno partecipato anche le tifoserie delle quattro maggiori squadre di calcio, San Paolo, Palmeiras, Corinthians e Santos.

I poteri legislativo e giudiziario si sono schierati con decisione al fianco di Lula, a difesa della democrazia. Il Congresso e il Senato hanno ratificato l’intervento federale ordinato già domenica dal leader, mentre i rispettivi speaker – entrambi centristi – hanno condannato duramente le azioni dei ribelli.

Il presidente della Corte Suprema, Alexandre de Moraes, ha promesso azioni dure nei confronti dei terroristi. Degli autori delle violenze e di danni di oltre 1,3 milioni di dollari, in primo luogo. Seicento dei 1.500 arrestati sono stati rilasciati, soprattutto madri di bimbi piccoli e over 65. Per gli altri, però, si profilano accuse pesanti.

Soprattutto è caccia a organizzatori e complici. Un mandato di arresto è stato spiccato nei confronti dell’ex capo della polizia militare di Brasilia, Fabio Augusto Vieira. La magistratura ha identificato cento aziende sospettate di aver finanziato «la manifestazione golpista» pagando le decine di autobus che hanno portato i dimostranti nella capitale e foraggiando quelli accampati per oltre due mesi.

Si tratta, secondo l’Avvocatura dello Stato, di imprese del settore agro-alimentare di dieci differenti Stati. La Corte dei conti, da parte sua, ha congelato “asset” del governatore sospeso di Brasilia, Ibaneis Rocha, e del titolare della sicurezza commissariato, Anderson Torres, nonché dell’ex leader Bolsonaro. Quest’ultimo, dalla clinica di Orlando dove è ricoverato da un giorno per problemi intestinali non gravi, si è detto «dispiaciuto» per le violenze e ha annunciato di voler anticipare il ritorno in Brasile. Là, tuttavia, oltre a dove affrontare le varie inchieste già in corso, potrebbe essere accusato di responsabilità nell’attacco di domenica.

Mentre il capo dell’ultra-destra appare isolato, Lula ha guadagnato alleati. Alla guida del progressista Partido dos trabalhadores (Pt), ha vinto, lo scorso 31 ottobre, con una coalizione ampia che va dai conservatori moderati alla sinistra. Un’alleanza delle forze anti-autoritarie – incluse quelle della destra –, l’avevano chiamata che, tuttavia, fino a domenica, esisteva solo come strategia elettorale. Tanto che il governo era stato definito un corpo amorfo dal numero record di 37 ministeri, al cui vertice si trovano figure con obiettivi divergenti.

L’attacco perpetrato dai sostenitori dell’ex presidente, Jair Bolsonaro, ha dimostrato la concretezza della minaccia golpista, trasformando l’idea del fronte democratico in necessità. Con le macerie della presidenza, del Parlamento, della Corte Suprema, si è forgiata l’Amministrazione del “Lula III”. La foto del leader attorniato di ministri, governatori, funzionari all’entrata del Palazzo di Planalto è un simbolo eloquente quasi quanto della consegna della fascia presidenziale da una delegazione del popolo.

La finestra di opportunità di Lula è, tuttavia, stretta. Molto stretta. Perché la “battaglia di Brasilia” potrebbe non essersi esaurita nelle cinque ore di fuoco e devastazione. Alcuni analisti parlano di una “fase 2” della protesta o “assalto al rallentatore”. Gli attacchi alle infrastrutture energetiche in Rondônia e Pará potrebbero essere solo il preludio.

Numerosi tralicci dell’alta tensione sono stati abbattuti negli Stati dove il bolsonarismo conta su una base sociale solida, data la concentrazione di latifondisti. Tensioni e blocchi sono stati registrati in Paraná e Mato Grosso. Esaurita l’era degli accampamenti e sit-in dei bolsonaristi – smantellati lunedì dopo settanta giorni –, si rischia di passare a una tensione latente, distribuita a macchia di leopardo per il Gigante del Sud. Pronta a esplodere ad ogni decisione sgradita del governo, nelle piazze e nelle caserme.

I militari sono la nota dolente di Lula. Il mandato di Bolsonaro ha visto una estrema politicizzazione delle forze armate, come dimostra l’inedito rifiuto dell’ex comandante della Marina, l’ammiraglio Almir Garnier dos Santos di partecipare alla cerimonia per l’entrata in carica del presidente. La sfida del governo è ora quella di riportarli al ruolo originario di garanti delle istituzioni.


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