giovedì 4 marzo 2021
A colloquio con il patriarca caldeo di Babilonia, che accompagnerà il Papa nella sua visita in Iraq. «Dalla terra di Abramo un grido: uno solo è Dio. La fede unisce i credenti»
Il cardinale Louis Sako, dal 2013 è patriarca di Babilonia dei caldei

Il cardinale Louis Sako, dal 2013 è patriarca di Babilonia dei caldei - Archivio Avvenire

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Quando papa Francesco atterrerà questo pomeriggio in Iraq, finalmente sarà realizzato il sogno che fu di Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo del 2000: il vescovo di Roma che visita la terra di Abramo.

Cardinale Louis Sako, lei è stato, senza dubbio, uno dei protagonisti nell’organizzazione di questo viaggio apostolico. Dal 2013 è patriarca di Babilonia dei caldei. Perché appena è stato dato l’annuncio, ha subito definito questo viaggio un «pellegrinaggio di pace e di fratellanza»?
Il mondo, rispetto al 2000, è molto cambiato, la situazione è diversa non solo in Iraq ma in tutto il Medio Oriente. Noi, popoli di questa regione, abbiamo veramente bisogno di un messaggero di pace perché da soli non arriveremo alla pace. Ci vuole qualcuno che ci parli della pace in maniera autentica, non politicizzata. Il Papa, con il suo carisma, può indirizzare una parola forte sul rispetto della vita, sul rispetto mutuale, sul far tacere le armi. Inoltre tutte le tappe di questo viaggio sono simboliche: il Papa potrà utilizzare sia Ur, sia Mosul, sia la piana di Ninive per un messaggio molto forte, diverso dallo spirito di vendetta, contro il settarismo, contro la divisione nello stesso popolo. Per questo è veramente un viaggio di pace.

Dopo la firma del Documento di Abu Dhabi nel febbraio 2019 si può, a suo parere, usare l’aggettivo storico per questo viaggio? Questo, dopo l’incontro fra papa Francesco e il grande imam Ahmad al-Tayyeb, potrebbe essere un’ulteriore tappa dell’itinerario per la fratellanza umana attraverso il dialogo interreligioso?
La visita ad Ur, durante il viaggio di Francesco, è dedicata alla figura di Abramo: il padre dei fedeli, dei cristiani, degli ebrei, dei musulmani. Il Corano dedica un capitolo ad Abramo; nella Bibbia la vocazione di Abramo è descritta come l’avventura di chi lascia tutto per seguire la voce di Dio; il Vangelo stesso ci parla di Abramo «padre della fede». Quindi noi siamo fratelli a livello spirituale, non solo in base alla natura umana. Abbiamo fede in un solo Dio e questa fede viene espressa in diverse maniere: noi cristiani, musulmani ed ebrei esprimiamo la fede nelle nostre culture, leggi, liturgie. Ma in fondo, nella fede, noi siamo uniti. Questo discorso può aiutare i musulmani ad aprirsi, ad avere uno sguardo positivo.

Il Papa poi visiterà le comunità cristiane di Baghdad e di Qaraqosh. Il 31 ottobre 2010 a Baghdad ci fu la “strage di Ognissanti” nella Cattedrale di Nostra Signora del Perpetuo soccorso; nel 2014 l’invasione del Daesh a Qaraqosh con “Tahira”, la Cattedrale dell’Immacolata Concezione, spogliata, incendiata e il chiostro trasformato in un poligono di tiro per i cecchini. Che Chiesa troverà papa Francesco? Quali ferite dovrà curare il Pontefice in questo “piccolo gregge”?
Il Papa, a mio parere, troverà gloria, troverà una bellezza interiore, perché nella nostra storia non abbiamo mai avuto una Chiesa di Stato, un regno cristiano, come è avvenuto in Occidente. Abbiamo la nostra liturgia, la nostra spiritualità, i nostri padri, ma anche i martiri che hanno pagato con il loro sangue per essere fedeli al Vangelo e a Cristo. Questa è la bellezza interiore della nostra Chiesa: il Papa, visitandoci, vedrà questa bellezza spirituale che non ha niente del trionfalismo, di una gloria esteriore. Questa visita del Papa è un forte riconoscimento dell’importanza delle Chiese orientali. Oggi in Medio Oriente c’è un piccolo gregge, abbiamo tanti problemi e la nostra presenza storica è minacciata: abbiamo bisogno del sostegno della Chiesa universale, e anche di quello dei nostri fratelli e sorelle cristiani dell’Occidente. Noi siamo le radici della fede, del cristianesimo e se non ci saranno più cristiani in Medio Oriente, il cristianesimo non avrà più le sue radici. Questo è un problema molto serio, perciò bisogna fare tanto per difendere, proteggere o almeno incoraggiare questi cristiani a rimanere nelle loro terre. Abbiamo dei problemi, ma siamo coscienti, come cristiani, della nostra vocazione in una maggioranza musulmana. Spero che il Papa, visitandoci, scopra tutto questo.

Questo viaggio è nato da un invito del presidente della Repubblica irachena Barham Salih. L’Iraq ha un governo provvisorio. In ottobre ci saranno elezioni anticipate, mentre il Paese oltre che dalla pandemia, è colpito da una grave crisi economica. Qual è l’attesa, nella società irachena, per l’arrivo del Pontefice?
Tutti, tutti lo aspettano. Il governo, il popolo cristiano e i musulmani. Una cosa diversa da ciò che abbiamo vissuto e sentito sinora: abbiamo vissuto conflitti con morti e distruzione. Anche durante la pandemia e con l’economia in crisi abbiamo ascoltato la voce delle armi. Ora abbiamo bisogno di ascoltare la dolcezza dei discorsi del Santo Padre che parlerà della fraternità umana, del dialogo interreligioso, del perdono contro la vendetta. È molto tempo che non sentiamo più questo linguaggio. Poi penso che il Papa parlerà di riforme: basta guerre in Iraq, ma anche in Siria e in Libano. Viviamo in una famiglia che si chiama Iraq, o Siria o Libano e ognuno si deve sentire a casa, non è uno straniero, un avversario che bisogna evitare o cancellare. Inoltre questa visita è un’occasione per l’Iraq di aprirsi di più alla comunità internazionale: il Papa non è un ospite qualsiasi. Ci saranno 75 persone al suo seguito e circa 200 giornalisti accreditati: è un fatto straordinario per l’Iraq. C’è un clima di grande festa: questa visita, per usare un’espressione spirituale, è un avvento, non un evento.

E si tiene a pochi mesi dall’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, mentre si stanno ridisegnando gli equilibri diplomatici con Teheran. Molti analisti ritengono che questo viaggio sarà importante anche per ridefinire il ruolo dei cristiani in tutto il Medio Oriente. Potrebbero esserci sviluppi diplomatici, in particolare con l’Iran, sulla questione del nucleare?
Il Vaticano ha una lunga esperienza di dialogo e riconciliazione fra Paesi: in America Latina, in Africa e, perché no, anche in Medio Oriente. La Santa Sede è neutrale e può fare molto per questi Paesi che soffrono, e che soffrono per una cosa assurda: tutti questi scontri, queste guerre sono assurde e dopo anni si dovrà arrivare a un accordo. Allora uno si chiede: perché tutta questa distruzione, queste migliaia di morti, perché tutto questo? Bisogna cambiare la mentalità, avere uno sguardo più ampio e vedere chi sostiene il traffico di armi, quali sono gli interessi economici che muovono queste guerre. Tutti parlano della dignità umana, ma perché non pensare anche alla povera gente innocente? E noi cristiani dobbiamo uscire da questa mentalità di paura: non dobbiamo avere timore, dobbiamo parlare, dobbiamo contribuire a una soluzione, impegnarci nella politica, non lasciare gli altri soli. Se noi ci mettiamo da parte, gli altri faranno tutto e noi non abbiamo il diritto di criticare. Dobbiamo, noi cristiani, contribuire al bene del nostro Paese: siamo cittadini e dobbiamo creare con tutti gli altri uno Stato civile e soprattutto basato sulla democrazia e sulla giustizia, e non uno Stato settario. Non possiamo vivere in un Paese teocratico: in Iraq non ci sono solo musulmani sunniti e sciiti, ci sono i cristiani, gli yazidi e altri religioni. La religione non può creare uno Stato, la vita sociale e politica è una cosa diversa dalla religione. L’Occidente ha avuto il progresso perché ha separato la Chiesa dalla politica. Se i musulmani vogliono un futuro migliore, penso che debbano separare la religione dallo Stato. Sono progetti per l’avvenire e, io credo, forse bisogna cominciare: il Papa semina, semina, noi dobbiamo irrigare e Dio benedirà il raccolto.

Per concludere, eminenza, lei sarà ad Ur a fianco del Papa. Qual è la sua intenzione di preghiera per l’umanità e per l’Iraq in questo momento?
Ad Ur ci sarà una preghiera interreligiosa per la pace e la stabilità, ma anche per rafforzare la fratellanza umana e il dialogo religioso. Tutti devono capire, tutti – cristiani, musulmani, ebrei – che il centro del messaggio religioso è l’uomo. Dio fa un gesto per l’uomo, Dio può salvare l’uomo e anche noi dobbiamo imparare come aiutare l’uomo a vivere nella dignità, a essere rispettato e trattarlo come un fratello e non come un nemico. Ur è un passo molto importante, come anche l’incontro con l’autorità sciita, il grande ayatollah Ali al-Sistani. Il Papa avrà un incontro privato con lui, e anche un gesto di dialogo. Non sappiamo esattamente che cosa avverrà, ma conto molto sul carisma del Santo Padre, che è un uomo di sorprese, un uomo che può fare delle sorprese.


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