venerdì 27 agosto 2021
Dopo la diffusione del Covid a Cox’s Bazar, le autorità hanno portato i profughi in isole al largo della costa, senza prospettive. Nessun accordo con il Myanmar per il rimpatrio
Profughi Rohingya nel campo di Cox's Bazar, in Bangladesh

Profughi Rohingya nel campo di Cox's Bazar, in Bangladesh - Ansa

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Sono trascorsi quattro anni dall’ultima, drammatica persecuzione dei Rohingya in Myanmar. Almeno 700mila furono costretti all’esodo verso l’estero, soprattutto in Bangladesh, per sfuggire ai rastrellamenti, agli stupri, ai massacri e ai roghi delle forze armate birmane. Azioni per cui queste ultime sono state condannate da tempo dalla comunità internazionale come crimini contro l’umanità e genocidio.

Non servono prove, perché i quasi un milione di profughi da allora accalcati nei campi nelle regioni sudorientali del Bangladesh sono un’evidenza senza appello. Una realtà che la Corte penale internazionale ha posto al centro della sua attenzione in vista di una incriminazione formale dei militari birmani sollecitata da più parti.

Nel frattempo, però, dopo quattro anni, non si sono ancora concretizzati gli accordi tra i governi bengalese e birmano per una gestione congiunta dei rifugiati o per il rientro di chi lo desiderasse.

La situazione nello stato di Rakhine (Arakan) dove si concentravano i Rohingya, di fede musulmana, è anzi ora perfino più confusa e insicura dopo il golpe militare del primo febbraio che ha chiuso una parentesi democratica incerta, guidata dalla Premio Nobel Aung San Suu Kyi. I Rohingya rimasti o sono fuggiti verso altre aree del Paese o sono rinchiusi in centri di raccolta circondati da mura e filo spinato.

Nelle decine di campi in Bangladesh l’esistenza è incerta, misera e a volte brutale con rischi elevati per le donne e i bambini. Le tensioni con la popolazione circostante, in parte non musulmana, sono sempre pronte a esplodere. Oltretutto, i Rohingya si trovano ad affrontare il rischio di contagio da Covid-19 che già ha fatto vittime nei campi attorno a Cox’s Bazar.

Il governo bengalese ha deciso ora di evacuarne una parte verso aree meno congestionate ma considerate poco idonee. In particolare, molti rischiano il naufragio e l’annegamento cercando di fuggire dall’isolamento di Bhasan Char, al largo della costa, dove le autorità vanno concentrandone decine di migliaia.

Ultima beffa: mentre è iniziata seppure a rilento la campagna vaccinale nei campi in Bangladesh, ai Rohingya rimasti in Myanmar viene negata la possibilità di immunizzarsi contro il Covid-19 se non in possesso di un documento di identità che ne attesti la residenza. Documento negato, proprio come la cittadinanza, agli esponenti della comunità di cui è persino illegale pronunciare il nome. In Myanmar, la falsa propaganda della dittatura militare – al potere per decenni prima della primavera, ora interrotta – i Rohingya sono per tutti “bengali”, ovvero immigrati dal Bangladesh in parte frutto di una flusso illegale che mira non solo a sfruttare le risorse locali ma anche a diffondere l’islam con l’ausilio di una elevata prolificità. Una teoria nazionalista fatta propria alle forze i e diffusa con la cooperazione di frange estremiste dei birmani e di gruppi fondamentalisti buddhisti. Una “fake news” tanto pervasiva che nemmeno Aung San Suu Kyi, a lungo simbolo della lotta nonviolenta contro i generali, ha potuto condannare.

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