giovedì 20 maggio 2010
I blindati hanno aperto un varco nella fortezza dei dimostranti consentendo l’avanzata delle forze speciali, accompagnate da forti esplosioni. I feriti vengono subito portati via in  barella, mentre gli irriducibili danno il via alla guerriglia.
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Si sono consegnati oggi nelle mani della polizia a Bangkok Veera Musikhapong e Weng Tojirakarn, i due leader delle camicie rosse thailandesi ancora "latitanti".  Veera, il "moderato", era sparito da 10 giorni dal palco di Ratchaprasong. Weng è invece considerato l'ideologo dei rossi, e ancora ieri mattina si trovava all'interno del presidio. Allo stato attuale, dunque, tutti i membri del cosiddetto "quadrumivrato" del movimento, oltre a Veera e Weng, Jatuporn Prompan e Nattawut Saikua, si trovano agli arresti.Era nell’aria dalla tarda serata di martedì e quindi la sveglia, alle 4 di mattina, accompagnati dal tam tam di colleghi e conoscenti che annunciavano la possibile resa dei conti a Ratchaprasong, non è stata una sorpresa. Tutto era già pronto e la ricerca di segnali, informazioni, certezze era già spasmodica. Occorreva, prima di vedere la capitolazione delle barricate all’apparenza inespugnabili di Sala Daeng, capire a che punto erano le operazioni delle Camicie rosse in altre aree, fino a che punto potevano sperare di rompere l’assedio a Ratchaprasong e congiungersi con i compagni contro l’avanzata dell’esercito.Occorreva passare dal presidio di Bon Kai, dove da tre giorni, «i rossi» – teen-ager da due mesi sulle barricate – tenevano testa a una pioggia di granate rispondendo con armi meno sofisticate ma con un entusiasmo disarmante ai cecchini. C’è voluto poco a capire che il clima era cambiato. Niente più accesso a taxi e motociclette sulla Rama IV dopo l’incrocio con Asok, facce tese alle barriere e niente sorrisi per lo straniero abitualmente benvoluto, addirittura vezzeggiato se giornalista. Occorre camminare a lungo, ma con qualcuno a fermarti ogni pochi metri: «Non si passa!»; oppure, di sottecchi: «Non andare oltre quel punto...». Paura che gli elicotteri che continuano a ronzare sulla testa appena indispettiti dal lancio di potenti razzi artigianali possano sganciare lacrimogeni. Paura, ugualmente, di tiratori pagati per centrare selettivamente e scavare un vuoto dove prima c’era una vita.Per un’ora fermi di fronte a una barricata che a soli 150-200 metri sembra irraggiungibile, ma davanti agli occhi passa la metamorfosi delle Camicie rosse. Da pacifisti con il saluto pronto e il sorriso facile, si trasformano nelle Camicie nere, dure, arroganti, mascherate; capaci di imporsi e di imporre. Capaci di minacciare – loro, il servizio d’ordine della protesta – gli stessi compagni che salutano con grida di disapprovazione lo sfondamento delle vetrate della metropolitana. Capaci all’improvviso di cacciare con uno sguardo chiunque si azzardi a scattare una foto. Capaci anche di usare pistole, esplosivi e lanciagranate. Brutta aria, aria tesa. Un senso di insicurezza che prende alla gola. Meglio andarsene, e alla svelta, aggirando il grattacielo della Lumpini Park che brucia dalla notte, incendiato per stanare i cecchini, aggirando le immense cortine fumogene delle barricate incendiate. Meglio andare nella zona dell’assedio dove, almeno, il rischio è più conosciuto e non mutante.In condizioni normali sarebbero bastati pochi minuti per arrivare, superando due ponti dedicati – ironia del caso – all’«amicizia internazionale». Occorre invece mezz’ora di svolte in contromano per arrivarci, per passare dall’inferno incendiario e dinamitardo di Bon Gai alla calma irreale di Sala Daeng, alla Fortezza. Dopo cinque, sei ore impegnate a mettere in sicurezza il circostante Parco Lumpini, santabarbara delle Camicie rosse che affianca la parte iniziale dell’accampamento, attorno a mezzogiorno parte l’attacco. I blindati avevano già aperto un varco appiattendo tratti della muraglia di bambù, copertoni e filo spinato per poi ritirarsi. I fanti, dopo le prime puntate in avanscoperta, accolte dal nulla, entrano in massa, avanzando lungo il viale Ratchadamri trasformato in bivacco, inseguendo una popolazione di Camicie rosse in ritirata verso il crocevia centrale di Ratchaprasong. Con essi, meglio, dietro di essi avanzano anche i primi foto e cinereporter. Di essi e per l’ultima volta, si saprà poco dopo, scatta le ultime immagini il collega Fabio Polenghi. Si perdono, lentamente, tra le tende e gli alberi, sotto il cavalcavia della metropolitana sopraelevata lasciando solo qualche presidio. Dietro gli ordini, le grida e gli spari avanza un silenzio pesante dopo sette settimane di proclami e slogan dagli altoparlanti; dopo giorni di sibili e schianti di pallottole, granate, petardi lanciati tra le due parti. Quando le truppe arrivano sull’ultima linea di difesa, scatta la reazione ed è allora che i primi morti escono dalla fortezza attraverso l’uscita di Sala Daeng: il primo, un soldato, il secondo un civile. Seguono altri ma alla fine cala il silenzio in attesa di quello che – si saprà poco dopo – è l’ultimo assalto agli irriducibili, asserragliati vicino e sotto il palco della protesta. A questo punto entrano in azione gli uomini delle forze speciali, tuta nera, volto mascherato. Passano non più di trenta minuti e poi, attorno alle 13,15 alcune potenti esplosioni scuotono l’area. Ci vuole poco a capire che deve essere qualcosa di diverso dai petardi ma anche dalle granate che formano l’artiglieria delle Camicie rosse. Gli uomini dei mass media che stavano «perlustrando» l’accampamento, si piegano, molti fuggono. Si teme un colpo di mano dei manifestanti, forse l’arrivo di rinforzi. Immediatamente entrano in azione i blindati che dall’ingresso di Sala Daeng si infilano come possono tra i resti di un bivacco grande e vissuto, schiantando i resti di settimane di vita effimera insieme a marciapiedi, alberi e tende.Contromano arrivano i soldati con le barelle: sopra, corpi martoriati di uomini in divisa, ma anche di un giovane reporter canadese, il fianco squarciato e senza un braccio. Altre ambulanze che partono a gran velocità, altri blindati che manovrano, altri uomini in mimetica che si appostano, ripartono, ritornano. Difficile capire se mezzi e uomini agiscano per delimitare l’area delle operazioni oppure per difenderne il perimetro. Finalmente, attorno alle 14 la situazione si chiarisce. I leader si sono consegnati, seguiti da molte Camicie rosse che in parte hanno trovato rifugio nel vicino tempio buddhista, come prima di esse diversi delle loro donne e dei loro figli. Non rientrano però gli uomini in nero addestrati a soffocare il terrore con la paura e una macchina di morte impeccabile che qui ha trovato un avversario temibile. Alcuni «rossi» irriducibili hanno avviato una guerriglia che ha per scopo di portare il terrore nel cuore di Bangkok, di aprire uno scenario da incubo: quello del sacco, dell’incendio, della vendetta che andrà concretizzandosi fino nel cuore della notte. Una notte di coprifuoco in cui ascoltare il silenzio, con il timore che qualcosa – un passo di corsa, un rumore ignoto, un grido soffocato – possano indicare che la vendetta è dietro l’angolo.
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