Una semplice pausa non basta più per scavalcare decenni di storia
venerdì 24 novembre 2023

Una tregua non basta. Non basta e non risolve il problema all’origine di una guerra senza fine e di un contenzioso che sembra non avere sbocchi, contorto e avvoltolato come un serpente nella propria sclerosi da qualunque lato lo si voglia guardare. Verrebbe da dire, e alzi la mano chi può negarlo, che la malapianta di quella dissennata geografia mediorientale ha radici lontane: vi capita mai di aprire un atlante e lasciar correre lo sguardo sulle linee di confine fra Siria, Iraq, Giordania, Israele, quei tratti di matita oblunghi tracciati nel deserto in rappresentanza di un agreement coloniale fra due potenze occidentali, un ricco bottino sulle ceneri del dissolto impero ottomano fra le cleptocrazie vincitrici della Prima guerra mondiale? In mezzo campeggia il focolare ebraico, la cui fiammella venne accesa nel 1917 dal ministro degli Affari esteri britannico Arthur Balfour con una lettera al banchiere e referente del movimento sionista Lionel Rothschild.
Non ci siamo mossi da lì. Da quel puzzle arabo di obbedienze sunnite, sciite con propaggini alauite, ismailite e altre ancora in mezzo al quale c’è lo Stato di Israele. E con al centro, dal almeno trent’anni, quella questione palestinese che nessuno sa e verosimilmente intende risolvere. Perché le intenzioni di fondo, diciamo pure la “ragione sociale” di questo massacro iniziato il 7 ottobre con un pogrom da parte di Hamas e proseguito con una operazione di rappresaglia che ha superato ogni limite rimane per entrambi la stessa: distruggere Israele, come recita l’articolo 7 dello statuto di Hamas («L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me; vieni e uccidilo»); distruggere Hamas, come più prosaicamente promette Benjamin Netanyahu, a cominciare dai suoi capi, ovunque si trovino.
Da lì, appunto, non ci siamo mossi. E cosa accadrà allo scadere della tregua?

La battaglia proseguirà con la medesima cruenza, lo stesso dispendio di sangue, la stessa inefficacia tattica (nessun ostaggio finora sembra esser stato liberato grazie alle forze speciali israeliane), lo stesso orizzonte nebuloso? Dei vincitori e vinti del conflitto si è già avuto modo di dire: Qatar e Stati Uniti hanno tessuto i fili delicati della trattativa lasciando in ombra l’Egitto e spogliando la Turchia di ogni velleità di intermediazione. Dietro di loro, l’ombra iraniana, scaltramente defilata e saldamente al guinzaglio dei propri vassalli libanesi, yemeniti, bahreiniti. Sullo sfondo, chi reputa che l’incendio in Medio Oriente avvantaggi la crescita del Sud del mondo e dei suoi alfieri (Cina, India, Russia) a scapito dell’Occidente esausto e stanco di guerra.
È tutto un po’ vero, ma non risponde alla domanda più importante: cosa ci sarà dopo questa tregua senza pace? Un ritocco neanche troppo vistoso all’infausta mappa del Medio Oriente disegnata da Sykes e Picot a dire il vero ci sarebbe. Se ne parla da molti decenni. Si chiama “Due popoli e Due Stati”. Sempre che qualcuno abbia ancora voglia di ricordarselo.

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