venerdì 12 gennaio 2024
L'azione militare limitata, la reazione di prassi di Teheran e l'enorme posta in gioco della rotta del petrolio potrebbero però contribuire a non far esplodere ulteriormente lo scontro regionale
Manifestazione di sostenitori houthi a Sanaa

Manifestazione di sostenitori houthi a Sanaa - Ansa

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Primo: non chiamateli "ribelli". Sono al potere nello Yemen da 10 anni, hanno un governo, un esercito e una struttura statuale anche se non riconosciuta da buona parte del consesso internazionale. Secondo, l'attacco di questa notte alle basi Houthi nello Yemen da parte di Usa e Gran Bretagna era inevitabile, dopo le minacce precise e inequivoche del segretario di Stato americano Antony Blinken prima di concludere ieri sera la missione in Medio Oriente, nella quale aveva avvisato alleati e non dell'imminente azione militare. L'ordine politico di agire "moderatamente" era già stato impartito giorni fa dai due leader Usa Joe Biden e inglese Rishi Sunak, il premier britanico che ieri sera come prassi ha convocato governo e leader dell'opposizione per comunicare che i caccia inglesi avrebbero colpito di lì a poco nel sud dello Yemen e sulle piste dell'aeroporto di Sanaa, da dove partono i droni diretti nel Mar Rosso alla Porta del lamento funebre (questo significa Bab al-Mandab, il nome arabo dello stretto che immette nella rotta per Suez). Riunione a Downing Street che ha innescato il circo mediatico dell'attesa, durata solo poche ore dal lancio dei missili da crociera americani e dalle prime bombe britanniche.

La zona teatro degli attacchi aerei Usa-Gb contro gli Houti

La zona teatro degli attacchi aerei Usa-Gb contro gli Houti - Google maps

Terzo punto: l'effetto-annuncio, i proclami e le promesse dei giorni scorsi e le parole di fuoco degli Houthi e (di Teheran), lasciavano poco spazio alla speranza che ciò non avvenisse. La portata dell'azione la dice però lunga sul significato, come sull'effetto "dovuto" dello strike: Usa e Gran Bretagna potevano colpire almeno dieci volte più pesantemente, ma non lo hanno fatto. Come non lo hanno fatto di sorpresa, ma facendo capire direttamente a Teheran quando sarebbe avvenuto. Perché, non va dimenticato, gli Houthi sono una creatura degli ayatollah nella guerra per "proxy" con i sauditi che dal 2016 insanguina uno dei Paesi più poveri al mondo e che da otto mesi ha trovato però un certo equilibrio coabitativo tra gli sciiti che hanno preso il potere e i fedeli alleati di Riad che di fatto hanno perso la guerra.

Quell'accordo, ma mai sottoscritto, tra Houthi (Teheran) e Riad ora è però in pericolo, così come l'attacco di Hamas del 7 ottobre aveva per bersaglio l'altra faccia della medaglia: l'Accordo di Abramo, con Israele che cercava "tranquillità" con il Golfo. Torna quindi ricorrente il tema della guerra per procura, caratteristica di tutta la regione mediorientale a partire dalla Siria per passare attraverso il Libano, Gaza e fino all'Iraq.

Teheran reagirà "per procura", la Russia farà lo stesso al di là dei palesi blocchi Consiglio di sicurezza. E così, a cascata, tutti i potentati regionali. Formalmente l'azione, che ha un precedente nel 2016 con i missili americani destinati agli allora "ribelli" Houthi, ingaggia di nuovo Stati Uniti e Gran Bretagna, ma con loro l'intera coalizione internazionale nata nel giro di pochi giorni quando le ricche rotte del petrolio erano minacciate. Rapidità che il mondo dimostra solo quando si tratta di denari e della perdita di tale potere. Coalizione che ha arruolato anche anche l'Italia del governo Meloni e che è stata minacciata in più riprese, come gli altri Paesi, di "ritorsioni" da parte delle milizie sciite di Sanaa contro le navi battenti bandiera tricolore.

Insomma, volente o nolente, anche Roma è stata di nuovo trascinata in una crisi della quale, probabilmente, avrebbe volentieri fatto a meno. Soprattutto in questo momento. Con il pericolo di escalation regionale che forse è meno cogente, ma tutt'altro che esclusa.

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