mercoledì 23 febbraio 2011
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Dopo Asia Bibi, ora tocca ad Agnes Nuggo. Un’altra donna pachistana, un’altra cristiana a essere accusata di blasfemia. Imputazione mortale in Pakistan: basta che quattro testimoni maschi giurino dinanzi a un tribunale religioso di aver sentito qualcuno bestemmiare il nome di Dio o del profeta Maometto per essere condannati a morte. La vicenda di Asia Bibi, con le sue sofferenze in carcere e le minacce alla sua famiglia, hanno smosso – sia pure tardivamente – le coscienze occidentali, dando il via a una campagna internazionale per salvare lei e i tanti che in Pakistan hanno subito o rischiano di subire la stessa sorte. Come è probabilmente il caso di Agnes.Le prime notizie che giungono dall’Asia meridionale sono ancora confuse, ma hanno a che fare – come avviene quasi sempre – con litigi per il possesso di terra, vendette per torti veri o presunti, ritorsioni contro comunità o famiglie avversarie. In ogni caso, quale che sia la ragione, risulta con dolorosa chiarezza che questa legge voluta dai movimenti islamici radicali negli anni 80 – gli anni dell’islamizzazione radicale di questo grande e fragile Paese cerniera fra India, Medio Oriente e Asia centrale – non solo è iniqua, ma qualcosa di peggio. Andando oltre le intenzioni di chi l’ha voluta, essa è divenuta un Moloch che schiaccia senza difesa gli appartenenti alle minoranze più esposte e i deboli, come i cristiani; uno strumento di pressione, minaccia, ricatto o vendetta personale.Alla nostra ragione e al nostro cuore ripugna l’idea che, per difendere Dio e il suo nome, si voglia dare la morte, seppure con la "copertura" della legge e dei tribunali. Ma ora è ancora peggio, perché la blasfemia non c’entra più nulla. Siamo dinanzi all’arbitrio e alla impossibilità di difendersi per chi viene accusato. E, in una spirale di radicalismo e fanatismo, anche alla violenza contro chi – in Pakistan – si pone il problema di riformare una legge così palesemente ingiusta. Come è avvenuto al governatore della provincia del Punjab, Salman Taseer, ucciso proprio da una sua guardia del corpo perché "colpevole" di aver visitato in carcere Asia Bibi e perché favorevole a una revisione delle norme che sanzionano la blasfemia. Un’uccisione eccellente – il Punjab è la più importante delle quattro province pachistane – che ha mandato un segnale chiaro e inequivocabile al sistema politico del Paese: i gruppi islamici radicali non permetteranno l’abolizione della legge. Per difenderla non si fermeranno davanti a nulla, neppure all’omicidio di funzionari ai vertici dello Stato.Che cosa fare a questo punto e che cosa aspettarsi? Il debole e diviso sistema politico pachistano non ha la forza, né la volontà, né l’interesse di rischiare una prova di forza con il radicalismo islamico per abolire questa legge vergognosa. Fatica già a contenere la talebanizzazione delle proprie frontiere occidentali, a ridosso con l’Afghanistan, e la disaffezione popolare. Ma se non si può cancellare subito la norma, al governo di Islamabad può essere chiesto a gran voce dalla comunità internazionale – che lo sostiene e lo finanzia da anni – di trovare vie meno dirette, e forse meno impervie, dell’abrogazione.Possiamo e dobbiamo chiedere almeno una moratoria nella sua applicazione, mentre se ne verifica l’effettivo funzionamento. Un escamotage, direbbe qualcuno, un compromesso un po’ furbesco che non affronta il cuore del problema. Ma la politica internazionale, è cosa ben nota, si fonda spesso su espedienti tattici e su un realismo nel giudicare quelli che sono gli obiettivi possibili e quelli impossibili. Già una moratoria sarebbe una vittoria: non dei cristiani del Pakistan, ma di tutte le minoranze minacciate e di chiunque, in quel Paese, non tollera che la religione sia usata come un pretesto per feroci vendette o sia affidata alle mani degli estremisti.
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