venerdì 14 marzo 2014
​Ai cittadini di 29 Paesi piacciono, ma accusano: corruzione base dell’evasione. E si domandano come i governi usino le entrate fiscali.
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«Le tasse sono una cosa bellissi­ma, un modo civilissimo di con­tribuire tutti insieme a beni in­dispensabili quali istruzione, sicurezza, am­biente e salute». Per un simile commento, Tommaso Padoa-Schioppa venne subissa­to di critiche. Ebbene, ad analizzare i dati di un recente studio si può ben dire che l’al­lora ministro dell’Economia italiano a­vrebbe goduto di maggiore popolarità in Africa, continente che vede ormai la mag­giore crescita a livello mondiale, con il Pil medio che è destinato a salire del 6% nel prossimo decennio. La maggioranza de­gli africani (per l’e­sattezza il 52%) è in­fatti favorevole a pa­gare anche tasse più alte di quelle attual­mente in vigore. E questo perché i cit­tadini potrebbero a­vere in cambio ser­vizi migliori, a parti­re da sanità e scuola. Non solo: ben il 66% degli africani (con punte dell’85% in Ghana e Costa d’Avorio) è convinto che proprio le tasse siano un ve­ro e proprio motore di sviluppo per i loro Paesi. Solo un africano su tre, invece, pre­ferirebbe avere minori servizi in cambio di un alleggerimento delle aliquote fiscali. Metà degli intervistati ritiene inoltre che non pagare le tasse sia sbagliato e che chi evade andrebbe severamente punito. Il risvolto di questo studio condotto per due anni in 29 Paesi del continente da Afroba­rometer – progetto di ricerca indipenden­te – va a toccare però uno dei problemi an- cora “strutturali” in molti Paesi africani, e cioè la corruzione e la cattiva governance. Più di un terzo degli intervistati, infatti, pen­sa che la «maggior parte» o «tutti» i funzio­nari del fisco siano corrotti, e un altro 39% pensa che lo siano almeno in parte, con Ca­merun, Nigeria e Sierra Leone a guidare questa poco onorevole graduatoria. «La mancanza di fiducia nella condotta dei fun­zionari del fisco è alla base della tolleranza per l’evasione e dell’inadempienza con gli obblighi fiscali», sottolinea il rapporto. Il 62% degli intervistati, inoltre, ritiene arduo capire quante tasse debba pagare, mentre ben il 76% (dato che supera l’85% in Bu­rundi, Tanzania e Guinea) sostiene sia difficile comprende­re come il loro gover­no usi le entrate fi­scali.  Lo studio ribadisce quindi la necessità di maggiore trasparen­za da parte delle au­torità africane, non­ché l’esigenza di ob­bligare le autorità stesse a rispondere della gestione del gettito. Un obiettivo difficile in un conti­nente in cui sono molti ancora i governi dittatoriali, ma anche lì dove vige formal­mente la democrazia è spesso solo la clas­se dirigente a godere dei frutti della cresci­ta economica. Basta guardare alla classifi­ca annuale stilata da Transparency Inter­national: tra i primi 25 Paesi al mondo con il maggiore indice di «corruzione percepi­ta » ben la metà sono africani. La mobilitazione di risorse attraverso la tas­sazione resta una delle priorità per l’agen­da di sviluppo del continente africano, che sta peraltro godendo di un vero boom de­gli investimenti stranieri diretti, passati dai 15 miliardi di dollari del 2002 ai 46 miliar­di del 2012. Per molti Paesi del continente, il gettito fiscale è ancora lontano dai biso­gni di spesa del settore pubblico. Tra il 2000 e il 2010 le entrate fiscali hanno raggiunto una media pari al 24% del Pil, con un pic­co del 28% nel 2008. Se il dato viene paragonato con quello re­lativo ai Paesi dell’Ocse (33,8% nel 2010) è evidente come ci sia ancora spazio in Afri­ca per espandere il gettito. Per colmare il gap, molti Paesi hanno dovuto finora di­pendere dagli aiuti stranieri, ma la crescente domanda di servizi – causata anche dall’e­mergere di una classe media con maggio­ri possibilità di consumo – sembra sugge­rire ampie riforme fiscali, a condizione però di una maggiore trasparenza.
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