L'uomo che tagliava gli alberi in Amazzonia: «Ora basta deforestazione»
di Lucia Capuzzi, inviata a Bélem
La storia di Charles, brasiliano, che oggi è artigiano del turismo sostenibile: «Quando il tronco si spezzava, sentivo come un grido soffocato»

«Quel lavoro mi faceva male. Mi spossava il corpo. E lo spirito». «Quel lavoro», lo chiama così Charles Teles, 48 anni, tenendo gli occhi bassi. «Cosa facevo? Tagliavo alberi. Tutto il giorno con il ronzio della motosega nelle orecchie, sotto la pioggia o il sole. Quando il tronco si spezza, senti come un grido soffocato. Tornavo a casa distrutto per la fatica. Ma anche perché dovunque andavo mi lasciavo alle spalle macerie di foresta». L’opposto del paesaggio di Combú, una delle 42 isole intorno a Belém. Quindici chilometri quadrati di boschi tropicali, insenature fluviali scavate dal Rio Guamá e ruscelli dove abitano 1.800 persone. Tra loro Charles. «Anche qui, però, cominciamo a sentire il riscaldamento globale. I pesci scompaiono, le api muoiono. Ho perso dieci alveari solo nell’ultimo anno», racconta l’uomo che nel 2019 ha deciso di «smettere di ferire la selva». Non è stata una scelta facile. «Mi pagavano l’equivalente di 35 euro al giorno. Tutto in nero: ero un tagliatore illegale, portavo legname alle imprese edilizie. Il lavoro non mancava mai e ho sei figli. Un giorno, mentre mi lamentavo, un’amica mi ha detto: «Cos’altro sai fare oltre a distruggere?». Le ho risposto che come artigiano non me la cavavo male: realizzavo di tutto con i semi di açaí. Mi ha proposto di portare qualcosa a una fiera a Belém.
Da quell’esperienza è nata Ygara, “canoa” nella lingua degli indigeni Tupi: non una microimpresa ma un progetto di “cura” della foresta basato appunto sull’açaí, la frutta-simbolo del Pará, Stato da cui proviene il 90 per cento della produzione brasiliana. Una bacca nera, la cui polpa, altamente proteica, è l’alimento-base dei “riberinhos”, i popoli del Rio delle Amazzoni. Il nome è l’anagramma di Iaça, figlia, secondo il mito, del capo di una comunità flagellata dalla carestia. Per evitare di vedere i piccoli morire di inedia, il padre ordinò una strage di neonati, tra cui il bimbo di Iaça, morta subito dopo per il dolore. Sulla loro tomba spuntò una palma che mise fine alla fame. L’açaí appunto. Dopo avere trasformato le foglie in un laccio per tenere i piedi uniti, Charles si arrampica senza sforzo lungo i dieci metri di fusto liscio e chiaro. Giunto in cima, prende un ramo carico di bacche per mostrare “il ciclo dell’açaí”: tutto viene dalla natura e tutto alla natura ritorna. Con il frutto si fa l’immancabile purè, ma anche succhi e gelati; con la scorza si fabbricano oggetti, il nocciolo triturato è ideale come concime. I visitatori lo osservano rapiti. Nei giorni della Cop sono centinaia, in gran parte stranieri. In genere sono 500 al mese: Ygara è l’epicentro di un circuito di turismo sostenibile che dà alternative alla gente di Combú al traffico di legname o all’esodo verso le città. L’idea è trasmettere alle persone il valore – anche economico – dell’Amazzonia “in piedi”, come si dice, piuttosto che ridotta in pezzi da vendere. «Non è necessario tagliare la foresta per coltivare cacao, castagna o açaí – dice Charles alla comitiva –. Al contrario. Li protegge e li nutre».
La fiera in cui ci si imbatte appena sbarcati a Ygara offre una piccola dimostrazione. Vi partecipano piccoli produttori di tutto il Brasile: chi fa gioielli, chi oggetti per la casa, chi dolci e liquori. Tutti realizzati grazie, e non contro la selva. Michelle Quadros di Belém, fondatrice di Vem Amazônia, crea delle piccole opere d’arte con le bucce e i rami secchi di açaí. «Ho iniziato per necessità. Un programma del governo locale cercava soluzioni per smaltire i rifiuti alimentari delle isole – dice –. Osservandoli mi sono resa conto che erano un materiale prezioso. Soprattutto gli scarti di açaí. Ha mille vite. Come la foresta».
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