Lo zar dopo lo "sgarro" di India e Cina è veramente più solo?

La "diplomazia del barile di petrolio" inaugurata da Trump dopo tanti tentennamenti e le altre sanzioni europee forse, questa volta, possono impensierire Putin
October 25, 2025
Lo zar dopo lo "sgarro" di India e Cina è veramente più solo?
Ora il presidente russo Vladimir Putin è veramente più debole e solo?/ ANSA
Forse quella “partnership senza limiti” con Mosca solennemente proclamata da Xi Jinping qualche limite ce l’aveva. A cominciare dagli interessi divergenti dei due Paesi: Putin ha bisogno di armi e soldi, Pechino solo di petrolio. Non si spiegherebbe altrimenti la decisione dei colossi statali degli idrocarburi cinesi PetroChina, Sinopec, Cnooc e Zhenhua Oil, che hanno sospeso (almeno nel breve termine) gli acquisti di greggio russo trasportato via mare, subito seguiti dall’analoga decisione del leader indiano Narendra Modi.
O forse la spiegazione è ancora più semplice: con l’ultima sventagliata di sanzioni nei confronti di Rosnet, Gazprom, Lukoil, ovvero il cuore dell’industria degli idrocarburi russi, Donald Trump va a colpire direttamente il flusso di denaro che tiene in vita la macchina di guerra del Cremlino. Una mossa tardiva, ma significativa: Washington sta passando dalla diplomazia delle parole alla diplomazia del barile.
Colpire i due giganti petroliferi significa ridurre la principale fonte di valuta pregiata della Russia e aumentare i costi delle sue esportazioni. Il danno potenziale per Mosca si misura in decine di miliardi di dollari di mancati guadagni: Rosneft e Lukoil infatti rappresentano complessivamente la metà degli oltre 4 milioni di barili di greggio esportati quotidianamente dalla Russia e destinati per lo più ai mercati asiatici da quando alla fine del 2022 l'Occidente aveva imposto al greggio un tetto massimo di 60 dollari. La Cina e l'India sono i due maggiori acquirenti del greggio russo: solo in settembre hanno importato rispettivamente due milioni e 1,6 milioni di barili al giorno. Uno stop ai loro acquisti, anche se temporaneo, infliggerebbe quindi un duro colpo a Mosca e alla sua capacità di finanziare la guerra in Ucraina.
Nonostante un’accurata cosmesi dei conti pubblici e una non comune abilità nel maneggiarli da parte dell’energico presidente di Bank of Russia Elvira Nabiullina (l’unico membro della nomenklatura che riesce a dire di no a Putin), dal 2022 a oggi la bilancia dei pagamenti petroliferi, fonte primaria della ricchezza di Mosca, ha conosciuto un calo reale attorno al 40%, compensato dagli sbocchi in altri mercati, assetati e ben felici di procurarselo sotto costo. Ora però quel “dark market” fatto di flotte navali ombra e di generose ospitalità nei porti amici si è considerevolmente contratto. E non è l’unica spina nel fianco dell’economia russa. Basti pensare che ben 300 miliardi di euro delle riserve della Banca Centrale russa sono stati congelati dal blocco occidentale (210 nella sola Ue, che tuttavia rilutta ad impiegarli a favore dell’Ucraina, che ne ha bisogno di 60 all’anno) mentre il 70% dei beni del sistema bancario sono oggetto di sanzioni. Finora la Nabiullina ha saputo tenere saldo il timone del rublo e contenere come poteva l’inflazione. Giusto ieri ha annunciato di aver abbassato i tassi in risposta alle sanzioni di Washington.
Ma sempre ieri il petrolio Wti era nuovamente in rialzo a New York a 61,97 dollari al barile, mentre il Brent del Mare del Nord, salito di circa il 5% in pochi giorni, s'impennava a 66 dollari. Una spia di ciò che potrebbe accadere nel medio termine: il prezzo politico delle nuove sanzioni rischia di portare a un aumento dei prezzi globali dell’energia che anche l’Occidente finirebbe per pagare.
Dalla guerra del barile a quella delle parole. «Le sanzioni americane non avranno alcun effetto sulla nostra economia», ha detto sprezzante Putin. «Sono contento che la pensi così. È una buona cosa. Vi farò sapere fra sei mesi. Vediamo come andrà a finire».
«Vedremo cosa accadrà tra sei mesi – rincara il portavoce del Cremlino Dmitrijy Peskov –: già vediamo cosa sta succedendo ora e ricordiamoci di cosa succedeva un anno fa o due anni fa…». Ma c’è un aspetto che va oltre l’economia. Sanzionare Rosneft e Lukoil significa colpire i simboli del potere russo, gli strumenti attraverso cui Mosca proietta la propria influenza globale, una sfida aperta al modello di capitalismo autoritario costruito da Vladimir Putin, dove l’energia non è più solo merce, ma linguaggio di potenza. Un territorio che Donald Trump pratica e conosce bene, almeno quanto lo conosce Putin.
A Londra la Coalizione dei volenterosi guidata dal premier britannico Keir Starmer ha discusso a lungo delle forniture di missili a lunga gittata a Kiev per colpire obiettivi russi. Sarà una guerra lunga, su entrambi i fronti, profetizzano tutti. Si tratta solo di stabilire con quali armi si giungerà a una pace durevole. Basterà il petrolio?

© RIPRODUZIONE RISERVATA