La guerra sporca tra guardie e ladri nell'assedio a Port-au-Prince
di Lucia Capuzzi, inviata a Kenscoff
Con le forze di sicurezza in agonia, a guidare gli attacchi contro le bande sono le squadre di autodifesa. Nel caos di Haiti, linciaggi e violenze sono prassi. «O noi o loro, non c’è altra scelta»

«Amour, Jesus, King». Annerite e leggermente deformate, le tre parole sono sopravvissute alle fiamme. È tutto quello che resta del murale che Mandela aveva realizzato nella sua camera. L’ultima opera. Scomparsa. Proprio come il corpo dell’artista 32enne e del padre che dormiva nella stanza di fronte. «So che sono morti, ho sentito gli spari, ho visto il sangue per terra. Ma, al contempo, non lo so. Alcuni giorni mi sveglio convinto che le gang li abbiano portati via, da qualche parte. Hanno perso molte truppe e magari li hanno fatti prigionieri per costringerli a lavorare per loro…», racconta suo fratello Holly mentre si lascia alle spalle lo scheletro della casa. Fuori l’afa di Port-au-Prince si è sciolta in un’aria frizzante, la vegetazione tropicale si è trasformata in una distesa di pini e querce. Le montagne di Kenscoff, propaggine meridionale della capitale, sono tra le ultime distese verdi dell’isola: altrove gli alberi sono stati divorati dalla fame di legname, tagliato ed esportato dalle compagnie francesi a cui il regime dei Duvalier aveva concesso mano libera. La dittatura è finita nel 1985 ma il manto tropicale non è ricresciuto.
Al contrario, la deforestazione è proseguita. Per questo, fino a qualche anno fa, Kenscoff era il luogo in cui l’esigua élite haitiana trascorreva i fine settimana in baite in legno e pietra, al riparo dal caldo e dal caos metropolitano. Quante di quelle villette sono rimaste in piedi, sono vuote da tempo. Come l’orfanotrofio Sainte-Hélène, sulla vetta dell’altopiano. Ad agosto, la struttura, gestita dall’associazione Nuestros pequeños hermanos per dare rifugio a 270 bimbi, è stata assaltata: la direttrice, la missionaria statunitense Gene Heraty, sette collaboratori e una piccola disabile sono stati sequestrati per settimane.
L’apparenza bucolica del paesaggio non deve ingannare: Kenscoff è zona di guerra. Fra i suoi boschi si consuma la battaglia per il controllo dell’ultima “porta” di Port-au-Prince. Le gang, riunite nella coalizione “Viv ansanm”, sono a decise a “sprangarla”, come hanno fatto con le altre, una dopo l’altra. Il controllo delle rotte commerciati – e dei “pedaggi” – ha sostituito i sequestri come fonte principale del business criminale.
Per Kenscoff passa una direttrice fondamentale: quella per Jacmel che conduce al sud e al sud-ovest del Paese. Nonché la via d’accesso alla porzione meridionale di frontiera con la Repubblica Domenicana, bacino di rifornimento di merci legali e illegali. Le forze di sicurezza superstiti non vogliono cedere l’area. Su una delle alture – Femat – c’è l’antenna di Teleco, da cui dipendono telecomunicazioni e traffico degli aerei e, soprattutto, dei droni, la nuova arma anti-bande dei mercenari di Erik Prince, fondatore di Blackwater, assoldati dal premier Alix Didier Fils-Aimé con il sostegno – non solo morale – di Donald Trump. Il conflitto, così, va avanti ormai da nove mesi, tra momenti di «calma esclusivamente apparente», come ha appena denunciato il sindaco Jean Massillon, e attacchi feroci. Solo nei primi due sono state uccise oltre 250 persone. Centinaia di case sono state date alle fiamme. In ventimila hanno dovuto sfollare per aggiungersi al fiume di rifugiati interni: quasi 1,4 milioni di persone. Gracielle ha rifiutato di andarsene. «Non è una scelta, non ho altro posto dove andare», racconta la donna mentre trasporta le assi con cui, pezzo a pezzo, cerca di ridare forma alla casa, ridotta a un rudere. «Ho provato ad andare nel campo che il municipio ha cercato di allestire. Ma era un disastro. Non avevamo nemmeno un telo per ripararci. E poi vivevo nel terrore: la notte accadeva di tutto. Anche qui ho paura. Le gang sono nascoste poco più in alto. Ma almeno ci sono i Bwa Kale».
Bwa Kale, così gli haitiani chiamano le squadre di autodifesa che si moltiplicano nel caos generale. «Nella nostra siamo in trecento», dice con una punta di orgoglio Walf. Alto e muscoloso, con lunghi rasta nerissimi, presidia la strada principale a bordo di una moto scassata, con la pistola ben in vista. Ad Haiti non c’è una sola fabbrica d’armi ma, per strada, grazie ai carichi illegali dalla Florida, si trovano facilmente fucili di ultima generazione. «Così quando i banditi si presentano, come cinque notti fa, noi li aspettiamo. A volte diamo loro la caccia. Cosa accade quando ne prendiamo uno?». Walf fa una pausa e sorride: «Li portiamo dai vicini della comunità. Loro sanno cosa fare…». Con i tribunali di fatto chiusi da un anno e mezzo, il sistema giudiziario è paralizzato. L’impunità, dunque, è pressoché totale e prolifera la “giustizia fai da te”: i linciaggi sono prassi quasi quotidiana mentre gli agenti ancora in servizio fanno finta di non vedere e la forza internazionale anti-gang – decisa dall’Onu su pressione Usa a settembre – esiste solo sulla carta.
«Devi solo sperare che quelli che prendono siano davvero banditi. Chi può dirlo: si basano sulla provenienza. Se non hai con te i documenti o vieni da quartieri considerati “caldi”, come Martissant o Cité Soleil, sei morto», dice a bassa voce Gideon. Non vuole che qualcuno riferisca ai Bwa Kale. «Spesso fanno cose sbagliate. In fondo, però – sospira – sono sempre meglio delle bande». «O noi o loro. Che altro dobbiamo fare?», domanda Walf. Ha fretta, deve riprendere la ronda. La battaglia di Kenscoff continua.
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