La battaglia per Sumy, la “diga” di Kiev che i civili non vogliono lasciare

Nella città del nord i colpi si odono a meno di un chilometro, ma la gente resiste. Delegazioni di Mosca e Kiev attese domani a Istanbul. Putin e Trump potrebbero vedersi in Cina a settembre
July 21, 2025
La battaglia per Sumy, la “diga” di Kiev che i civili non vogliono lasciare
. | La facciata crivellata di colpi di un edificio a Sumy, nel nord-est dell’Ucraina: il fronte è a pochi chilometri
Il fulmine che di un istante anticipa il fragore dice che il colpo è caduto nell’abitato. «Se dopo il lampo, al tre sentite il botto, hanno colpito a un chilometro. Prima del tre, siete troppo vicini». Inzuppato di fresca pioggia estiva il soldato al posto d’accesso mette in guardia. «La gente di Sumy al tre non ci arriva quasi mai».
Il fronte Nord di un conflitto con troppi fronti aperti segue uno spartito imprevedibile. Un giorno è una guerra di posizione: decine di colpi di mortaio, cannonate dagli artiglieri, fuoco incrociato, né un passo avanti, né uno indietro. Il giorno appresso la linea s’infiamma e sembra che i battaglioni russi vogliano sfondare. Da domenica sono stati 23 gli assalti fronteggiati. «Una cosa è sicura – dice il giovane tenente della fanteria ucraina venuto a fare provviste nella città bersagliata –: da qui non possiamo andarcene a dare una mano a Est». Forse è per questo che gli strateghi russi hanno deciso di tenere sotto pressione la regione di Sumy, a quattro ore d’auto da Kiev, e a pochi minuti dalla frontiera russa. Se Kiev riuscisse a puntellare le retrovie nel Donbass, il Cremlino si troverebbe con un problema in più. Ma dovendo proteggere oltre mille chilometri di prima linea, per l’Ucraina non resta che escogitare robot gommati da terra e droni d’aria con cui tenere a bada gli incursori russi. Anche qui nel Nord si ingegnano. Da mesi cercavano una soluzione agli attacchi dall’alto sui mezzi blindati. Poi è arrivato un fabbro ucraino che con due soldi ha saldato delle reti di ferro che fanno da gabbia ai veicoli. Quando il drone colpisce la gabbia, a mezzo metro dalla corazza, le schegge possono ammaccare le blindature, ma nessuno muore.
Quello di Sumy, dove sono rimasti metà dei 300mila abitanti, già prima della guerra lo chiamavano “confine fantasma”, perché non ci sono fiumi o montagne a demarcare la separazione. E i confini naturali in guerra sono una disgrazia per chi attacca e un alleato per chi si difende. A Sumy non possono contare sui vantaggi dell’orografia. Le forze russe rivendicano di avere raggiunto e catturato anche ieri un mucchio di case sgarrupate e annerite a metà strada per raggiungere il capoluogo regionale. Nella loro lenta avanzata hanno un ostacolo in più: i civili che non se ne vanno. Anche le agenzie Onu ammettono che la gente di Sumy è la più difficile da convincere a evacuare. «Una volta le gente della Russia veniva a comprarmi l’insalata o le patate – dice Olga, che ha un podere e una bottega di quelle che si direbbero per prodotti a “chilometro zero” –. Loro venivano di qua e noi andavamo di là, senza troppe storie». Erano buoni affari tra gente di campagna. Poi sono arrivati la guerra e l’odio.
Mentre cerchiamo il rifugio indicato dalle mappe sotto alle guglie verdeoro della cattedrale del Redentore, tra edifici intatti ed altri sventrati, nei dintorni piovono droni e le bombe plananti caricate con mezza tonnellata di esplosivo e ferraglia, per fare più male. Sono l’arma più temuta. Droni e missili li senti precipitare addosso, lasciando sperare in un riparo anche all’ultimo istante. Le “glide bomb” invece non hanno motore. Sembrano siluri con le ali. Quando si avverte il sibilo, come di una improvvisa folata di un vento violento, è troppo tardi per contare fino a tre. Ieri ci sono andati di mezzo 13 civili, tra cui un bambino. Secondo l’amministrazione militare del distretto, le forze russe hanno lanciato 90 attacchi contro 38 insediamenti, colpendo case, automobili, infrastrutture civili.
Come a Kiev, dove le detonazioni hanno scosso la capitale ucraina per quasi tre ore dalle 2 del mattino fino alle 5 di ieri. Una persona è stata uccisa, nove sono rimaste ferite. Molti si erano rifugiati nella stazione “Lukianivska” della metropolitana, dove poi un drone si è schiantato provocando danni e qualche ferito. Nel quartiere Dniprovskyi un asilo nido è stato messo fuori uso. Su tutto il Paese sono stati scagliati più di 200 droni e 24 missili, questi ultimi tutti intercettati, dopo che l’Ucraina il giorno prima aveva lanciato una sessantina di droni contro la Russia, gettando per alcune ore nel panico gli scali aeroportuali.
La minaccia di nuovi e più massicci raid – l’intelligence tedesca teme un attacco simultaneo con 2mila droni – si è fatta mediatica dopo che il canale televisivo del ministero della Difesa di Mosca ha diffuso un lungo servizio da una base segreta dove vengono assemblati i droni killer di progettazione iraniana. Centinaia di velivoli pronti a essere infarciti di esplosivo, mentre il direttore dell’impianto mostra con orgoglio i tanti adolescenti che in una sorta di macabra alternanza scuola-lavoro si danno il cambio alla catena di montaggio. Il vasto padiglione è sorvegliato dai faccioni che «sono nel nostro Dna»: “il barba”, il “progettista capo”, “il leader assoluto”. Il primo è Igor Kurchatov, padre della bomba atomica sovietica. In mezzo c’è Sergej Korolëv, l’architetto dei primi ordigni balistici e dei lanci spaziali in epoca Urss, deportato nei gulag staliniani, poi scarcerato e messo a capo del programma missilistico come “ingegnere prigioniero”. Accanto al duo di scienziati è stato posto proprio Iosif Stalin. E del perché nella fabbrica di morte al tempo di Putin sopravviva il mito dell’Unione Sovietica, la gente di Sumy non ha bisogno di spiegazioni.

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