Israele ha bombardato Damasco: «Nella città dei drusi 300 morti»

Per il secondo giorno consecutivo, i caccia di Tel Aviv hanno colpito in Siria per chiedere il ritiro dei governativi da Sweida, bastione della minoranza alleata. La paura dei cristiani di Idlib
July 15, 2025
Israele ha bombardato Damasco: «Nella città dei drusi 300 morti»
Ansa | Il ministero della Difesa siriano è stato colpito da un raid israeliano
La crisi in Medio Oriente continua ad allargarsi. A catalizzare le tensioni è ora la nuova Siria di Ahmed al-Sharaa. Israele accusa il governo di Hayat Tahrir al-Sham (Hts), che ha sconfitto Bashar al-Assad, di violenze nei confronti dei drusi, concentrati a sud. Per il secondo giorno consecutivo, i caccia di Tel Aviv hanno bombardato Sweida, roccaforte della minoranza che, da domenica, combatte con i clan beduini locali. Le autorità di Damasco hanno inviato l’esercito per riportare l’ordine. Una mossa considerata dai drusi – e dagli alleati israeliani – un pretesto per sottomettere la comunità. Da qui la fiammata bellica. Oltre a Sweida, i raid hanno colpito il ministero della Difesa e le vicinanze del palazzo presidenziale di Damasco, proprio nella data del 25esimo anniversario dell’entrata in carica di Assad. Almeno tre persone sono rimaste uccise e 34 ferite. Un migliaio di drusi, nel frattempo, ha oltrepassato il confine israeliano per fuggire dalla guerra. Il raid è arrivato inatteso dopo settimane in cui la Casa Bianca ventilava l’imminente normalizzazione tra i due Paesi, a lungo nemici. Per questo, Washington è intervenuta per la de-escalation. Il segretario di Stato, Marco Rubio, ha annunciato un meccanismo per mettere fine al conflitto entro l’alba di oggi, incassando il grazie di Damasco. Già in tarda serata, le forze armate siriane hanno avviato il ritiro. Sono state registrate, però, ulteriori incursioni di Tel Aviv sulla capitale. A Sweida, secondo fonti della sicurezza, si parla di trecento morti.
La battaglia del sud rivela la tensione latente nel Paese ed è guardata con particolare preoccupazione a nord, a Idlib, altro frammento-chiave del mosaico siriano. Nella provincia governata fin dal 2018 da al-Sharaa, la presenza turca è ben visibile, tanto che anche l’elettricità, così come la moneta, sono fornite da Ankara. A pochi chilometri dal confine turco sorgono due villaggi – Knaya e Yacoubieh – dove la piccola minoranza cristiana ha vissuto anni terribili, oppressa senza alcun riguardo dai gruppi più radicali. Al-Nusra, Daesh, Hayat Tahrir al-Sham (Hts) e i ribelli di varia natura si sono alternati al governo di questo luogo che un tempo ha visto il passaggio dell’apostolo Paolo verso Antiochia. Dopo la caduta di al-Assad e la riunificazione del Paese, le croci tornate sulle chiese, anche se lo stucco bianco usato per nascondere alcuni simboli cristiani copre ancora antiche icone. E i graffiti scritti sul convento francescano, l’unico del Paese, sono ancora ben visibili. «L’islam è l’unica religione di Dio», si legge. È la firma indelebile dei jihadisti. «Non ne possiamo più della guerra», dice Miriam, una ragazza armena di soli sedici anni che da grande vorrebbe fare la farmacista. «Non si ha mai pace – dice riferendosi a quanto accade a Sweida –. Il presidente al-Sharaa non ha un controllo reale del Paese. E anche qui la situazione potrebbe cambiare da un momento all’altro». Le donne cristiane che vanno nella piccola chiesetta entrano col velo. Meglio non suscitare inutili litigi e toglierselo una volta entrate, lontano da occhi indiscreti. Per i sacerdoti, indossare l’abito religioso nelle vie è poco consigliato, specialmente in certe zone dove ancora frequentate dai jihadisti (e si vedono in giro, rigorosamente con tunica, mitra e barba lunga). Nonostante ciò, Basem non ha mai lasciato questa terra ricca e piena di ulivi.
Per sopravvivere aveva aprire una cartoleria dove, però, i musulmani prendevano la merce gratis. «Dicevano che non erano tenuti a pagare niente a un cristiano». Il terremoto gli ha portato via la casa e l’emporio. Oggi è tuttofare nel convento. «Non so più cosa pensare. È vero, abbiamo maggiore libertà di movimento, ma come cristiani non siamo al sicuro». Eppure alcune famiglie sono tornate, dopo anni. Hanno ripreso possesso delle vecchie case, hanno ritrovato gli amici. La voglia di normalità e di tornare a vivere è grande. Josif è un agricoltore nato e cresciuto nel villaggio che non ha mai abbandonato. «Abbiamo notato qualche miglioramento, tutto sommato. Da qualche domenica la polizia arriva davanti alle nostre chiese. Controlla le persone all’ingresso, vuole evitare a tutti costi altri attentati». I fatti di Mar Elias insegnano. Che i protettori di oggi siano gli stessi delle brigate jihadiste di ieri non è rilevante. «Non sono più gli stessi di prima. L’origine è la quella, ma la mentalità è cambiata. Se vogliono governare davvero devono garantire stabilità e sicurezza. Per questo ci proteggono». Farid, anche lui cresciuto a Kanyeh e rientrato dopo anni di Studio ad Aleppo, vorrebbe sposarsi e trovare un lavoro sicuro. Non si fa tante illusioni: «Non ho molta fiducia in questo governo. Non penso ci aiuteranno». Ma conclude sorridendo: «Negli anni scorsi abbiamo visto l’inferno, qui. Tutto sommato è difficile che possa accaderci qualcosa di peggio. Forse». Lo spettro della battaglia del sud aleggia sulla “nuova Siria".

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