Arayara, l'organizzazione che si batte per difendere attivisti e indigeni
di Lucia Capuzzi, inviata a Belém
L’avvocato Lucas Kannoa alla Cop30 in Brasile: "Arrivano minacce di tutti i tipi". Dal 2012, sono stati assassinati o fatti sparire 2.253 persone. L’Amazzonia l’epicentro del massacro

“Quanto vale una vita indigena?”. La scritta, sotto il volto stilizzato di un bimbo nativo, accoglie i visitatori all’Amazon Climate Hub di Belém. Là, appena dietro il centro della città amazzonica, l’Istituto Arayara ha creato il proprio quartier generale nei giorni della Conferenza Onu sul clima (Cop30). Workshop, incontri, dibattiti per promuovere una transizione energetica giusta a protezione della terra e dei suoi popoli. Obiettivo che l’organizzazione, con sede a Brasilia, porta avanti da 34 anni attraverso mobilitazioni e campagne. La sensibilizzazione è stata solo una parte, però, del lavoro di Arayara durante il summit. In una sala riservata, l’avvocato Lucas Kannoa, ha ricevuto le denunce di attivisti perseguitati a causa del proprio impegno per l’ambiente. In due settimane ne sono arrivate diciannove: più di una al giorno. Oltre quattro volte quelle raccolte da quando, un anno fa, l’istituto ha lanciato il programma di assistenza legale gratuita per i difensori sotto attacco.
La gran parte di questi ultimi, arrivata a Belém per l’evento internazionale, ha saputo per caso del programma. Così ha deciso di prendere contatti. “Si sono presentate persone da varie parti del Brasile – in particolare Amapá, Pará e Amazonas - e anche un colombiano. Molti sono indigeni. Ma è venuto anche un sacerdote gesuita, un giornalista, uno scienziato e un consigliere comunale. Il tipo di minacce varia. Alcuni rischiano la vita”. Secondo l’ultimo rapporto di Global Witness, 2.253 donne e uomini sono stati assassinati o fatti sparire dal 2012, quando l’Ong ha iniziato a monitorare la strage. L’anno scorso sono stati 146. Il Brasile, con 413 omicidi, è il secondo nella macabra classifica dopo la Colombia, con 509. Questa settimana, in piena Cop, in Mato Grosso do Sul, una banda di sicari ha ucciso a colpi di pistola Vicente Fernandes Vilhalva, nativo del popolo Guarani Kaiowá, che reclamava la propria terra occupata per far posto agli allevamenti intensivi di bestiame.
L’Amazzonia è l’epicentro del massacro. Lontana dai centri istituzionali dei nove Stati in cui si estende e ricca di risorse di valore inestimabile la regione è un Far West dove la fame mondiale di risorse mostra il suo volto più brutale. “L’esempio brasiliano è emblematico – sottolinea l’avvocato -. La violenza strutturale è risultato dell’estrema diseguaglianza economica che si traduce in disparita di potere e una serie di discriminazioni stratificate di genere e etnia”. Lo conferma l’impunità diffusa: Human right watch ha calcolato che appena il 5 per cento dei delitti legati a conflitti per la terra è arrivato in tribunale. “Non c’è, però, solo la violenza diretta. Spesso le grandi compagnie criminalizzano, con false accuse, chi si oppone ai loro piani. Data la complicità diffusa fra le autorità tanti finiscono in cella con lunghe condanne. Altre volte – e questo lo stiamo notando soprattutto lungo la foce del Rio delle Amazzoni, dove sono state appena autorizzate nuove trivellazioni petrolifere -, le grandi aziende utilizzano promettono investimenti in infrastrutture e lavoro alle comunità indigene, spaccandole. E coalizzando i favorevoli contro quanti protestano”. Il segretario delle Nazioni Unite, Antônio Guterres, ha ribadito che i popoli indigeni sono fondamentali per arginare l’emergenza climatica. “Perché continuino ad esserlo, però, i loro diritti devono essere garantiti – conclude Lucas Kannoa -. Primo fra tutti quello alla vita”.
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