giovedì 21 dicembre 2017
Votata a larghissima maggioranza una mozione contraria alla decisione di Washington di riconoscere la città capitale di Israele. Nonostante l'ira dell'ambasciatrice degli Stati Uniti
L'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha detto no a Trump su Gerusalemme (Ansa)

L'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha detto no a Trump su Gerusalemme (Ansa)

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«Gli Stati Uniti si ricorderanno di questo giorno». La minaccia di pesanti ritorsioni economiche, sia all’Onu che e ai singoli Paesi, dell’Amministrazione Trump non ha fermato il «no» del mondo alla mossa degli Stati Uniti su Gerusalemme. Ieri la stragrande maggioranza degli Stati membri dell’Onu 128, tra cui l’Italia e la Ue, ha infatti votato contro lo strappo di Donald Trump, che il 6 dicembre per la prima volta in 70 anni ha riconosciuto Gerusalemme capitale «una ed indivisibile» di Israele.

A favore della risoluzione di condanna degli Usa all'Assemblea generale delle Nazion Unite si sono espressi in 128, mentre in 9 hanno votato contro (oltre a Usa e Israele, anche Togo, Micronesia, Nauru, Palau, Isole Marshall, Guatemala e Honduras) e 35 si sono astenuti. Il voto, come tutti quelli dell’Assemblea generale, a differenza di quelli del Consiglio di sicurezza, non è vincolante ma contiene un forte «messaggio politico». Anche India, Russia e la Cina, tradizionalmente alleati di Israele, hanno votato a favore del pronunciamento dell’Assemblea generale, così come tutto il blocco dei 25 Paesi dell’Unione europea.

Il testo ribadisce che lo status di Gerusalemme dovrà essere stabilito attraverso negoziati e non unilateralmente e che Israele (che ha occupato Gerusalemme Est con la Guerra dei sei giorni del 1967) non può attribuirsi il controllo della Città Santa senza l’approvazione del palestinesi. È stato presentato da Turchia e Yemen, ed è praticamente la fotocopia di quello presentato dall'Egitto e bocciato giorni fa in Consiglio di Sicurezza a causa del veto Usa. Si chiede che tutti gli stati rispettino le precedenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza (ben 10 dal 1967) secondo cui lo status finale di Gerusalemme può essere deciso solo nell'ambito di negoziati diretti tra israeliani e palestinesi. Ogni altra decisione - si spiega - deve quindi essere considerata non valida.

La Delegazione della Santa Sede, che all’Onu gode dello status di osservatore speciale, ha espresso «apprezzamento agli Stati membri per il loro impegno a scongiurare nuovi cicli di violenza e per promuovere il dialogo e i negoziati tra israeliani e palestinesi», quindi ha ricordato «l’obbligo di tutte le Nazioni di rispettare lo status quo storico della Città Santa, in conformità con le pertinenti Risoluzioni dell’Onu».


La scorsa settimana, i leader dell'Oic (Organizzazione per la cooperazione islamica) hanno proclamato Gerusalemme Est "la capitale dello stato di Palestina" e hanno invitato altri paesi a riconoscere uno stato di Palestina e Gerusalemme Est come
capitale occupata.

Israele ha annesso la parte orientale di Gerusalemme, che ha preso sotto il suo controllo durante la guerra del 1967, e ha approvato una legge che rende la città santa la sua capitale "indivisibile". Questa annessione non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale e dalle stesse Nazioni Unite che si è pronunciata ufficialmente anche a livello di Consiglio di sicurezza. I palestinesi considerano Gerusalemme Est come la capitale del loro futuro stato. La linea della comunità internazionale in merito al conflitto israelo-palestinese è da decenni molto chiara, almeno a parole: la soluzione sta in due Stati, con la creazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 e Gerusalemme capitale per entrambi.

L'ambasciatrice statunitense aveva minacciato di "prendere nota" dei Paesi che non appoggeranno la decisione di Washington, ma questo, se seguissero sanzioni e iniziative punitive, rischia di isolare ancora di più gli Stati Uniti. Tra gli oppositori di questa scelta su Gerusalemme, considerata affrettata e senza alcuna contropartita diplomatica da parte del governo israeliano sul futuro della regione, ci sono infatti Paesi strettamente alleati di Washington, da anni impegnati anche militarmente (con pure numerose perdite umane) in Iraq e Afghanistan.

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