mercoledì 22 gennaio 2020
Venerdì a Bruxelles primo vertice sull'operazione Sophia. Altri tre eritrei sono morti nei centri di detenzione: sono 40mila in attesa di protezione internazionale
Un'immagine scioccante dimostra le condizioni nel centro di Bani Walid

Un'immagine scioccante dimostra le condizioni nel centro di Bani Walid

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L'Ue ha convocato venerdì una riunione straordinaria del Comitato Europeo per la Politica e la Sicurezza (Cops) sulla Libia. Inizierà così la discussione per rimodulazione dell’operazione Sophia indirizzandola al monitoraggio dell’embargo di armi. Una ipotesi a cui ieri la Nato, con il segretario generale Jens Stoltenberg, ha dato il suo appoggio: «La Nato da sostegno all’operazione Sophia, e noi possiamo fare di più. Se la Ue chiede un maggior aiuto noi possiamo aiutare ad applicare l’embargo sulle armi», ha affermato. Molto scettico, invece, sull’ipotesi di una forza di interposizione internazionale l’inviato Onu Ghassan Salamé: «In Libia non si accettano le truppe straniere. E neppure vedo nella comunità internazionale la disponibilità a mandarne» ha affermato. Ora, ha aggiunto, è importante che il cessate il fuoco si traduca in una tregua duratura.

Sulla chiusura dei pozzi petroliferi, è invece intervenuta ieri l’ambasciata statunitense: le operazioni di estrazione «devono riprendere immediatamente», si legge in un comunicato. Una preoccupazione condivisa dal premier Giuseppe Conte secondo cui «dobbiamo evitare iniziative di questo genere». Per il presidente Sergio Mattarella, che ha incontrato a Doha l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani, «serve un supplemento di saggezza» nell’affrontare le diverse crisi in atto nel Mediterraneo. «Sosteniamo la legittimità del governo di al Sarraj ma dialoghiamo con tutti», ha ribadito Mattarella.

Un dialogo che se pare riavviato dopo la Conferenza di Berlino nella comunità internazionale, non è privo di ostacoli e pare ancora impossibile all’interno della Libia. La Francia, ha denunciato Ashraf Shah, uomo vicino all’esecutivo del premier Fayez Al-Sarraj «sta bloccando una dichiarazione congiunta dei Paesi occidentali che condanna la chiusura di porti e campi petroliferi» imposta dal generale Haftar «e che chieda che siano riaperti immediatamente». La trattativa riaperta domenica a Berlino è solo all’inizio. (Luca Geronico)

Tre migranti morti a Tripoli per ricordare alla comunità internazionale che in Libia oltre 40mila persone aspettano di venire liberate dai centri di detenzione ufficiali e di ricevere protezione. Tutti e tre i morti sono eritrei, nazionalità che consentirebbe loro di avere asilo nella Ue e persino in Libia, dove non è riconosciuta la convenzione di Ginevra sui rifugiati. Invece sono rinchiusi arbitrariamente a tempo indeterminato, malnutriti e senza cure mediche. Tre morti senza un perché che ancora una volta squarciano il velo sulla tragedia dei migranti nei centri e per le strade.
Adal Debretsion è morto il 12 gennaio nel lager di Sabha. Aveva solo 16 anni e, confermano i rifugiati della diaspora eritrea in Italia, veniva da Elabered, città vicina a Keren, dove c’è un cimitero militare italiano. Era scappato da solo tre anni fa, a 13 anni. Era un piccolo minore non accompagnato che non voleva venire arruolato, hanno assicurato i compagni di prigionia al quotidiano britannico "Guardian," nel servizio di leva a vita che continua ad essere inflitto ai giovanissimi dal regime nonostante da un anno e mezzo sia in vigore l’accordo di pace con Addis Abeba. Raccontano che la madre di Adal abbia mendicato in questi anni per trovare i soldi per i riscatti chiesti dai trafficanti quando ancora bambino aveva raggiunto la Libia dal Sudan per la prima volta nel 2017. Ha provato invano ad attraversare il Mediterraneo nel 2018, ma la guardia costiera tripolina, guidata dai miliziani che spesso sono trafficanti, lo ha ripreso e riportato a Tarik al Sikka e poi a Sabha, due centri di detenzione governativi di Tripoli. Qui l’adolescente aveva filmato con lo smartphone le proteste dei detenuti che chiedevano aiuti ed evacuazione girando i video ad attivisti e giornalisti. Nessuno conosce le cause esatte della morte, in due settimane di agonia - durante le quali non si è più risvegliato - ha ricevuto solo antidolorifici e non è mai stato visitato. I medici dell’Oim, l’organizzazione internazionale per le migrazioni, hanno ammesso più volte che il conflitto in corso ha impedito loro di entrare nei centri. E nell’intervista concessa ad "Avvenire" il capo missione in Libia dell’Acnur, l’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati, Jean Paul Cavalieri ha affermato che da novembre e dicembre le visite ai prigionieri sono state impedite. Secondo il report della scorsa primavera (quindi ancora prima dello scoppio del conflitto) dei medici di Msf a Sabha un detenuto su quattro risultava malnutrito e malcurato. In altri centri come Zintan vi sono state decine di decessi per tubercolosi. L’igiene è assente, mancano quasi ovunque acqua potabile e cibo, scarseggiano i bagni e i detenuti non possono lavare biancheria e vestiti. Inoltre nei centri di Tripoli i detenuti fanno da scudi umani perché le milizie governative vi hanno stipato armi e munizioni. Come scritto sabato da Nello Scavo su questo giornale, riprendendo le denunce degli stessi migranti e dell’Unicef, a diversi detenuti, anche minori, sarebbe stato proposto l’arruolamento tra i difensori della capitale contro le milizie del generale Haftar. Il quale a sua volta avrebbe arruolato migranti. Per i 3.000 detenuti ufficialmente in prigione, l’unica speranza è che arrivi la pace e i centri vengano chiusi.
Ma nelle strade è caccia agli stranieri. Giovedì 9 gennaio sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco davanti alla porta di casa nel quartiere tripolino di Gergarish due rifugiati eritrei, tra i 4.000 registrati dall’Alto commissariato delle Nazioni unite. Erano rifugiati urbani perché il centro di ricollocamento di Tripoli è pieno e si danno sussidi per uscire e a chi sta fuori. Le due vittime sono Freselam Mengesha, 31 anni, e Kiflay Fissahazion, 37 anni. Entrambi erano arrivati nel 2017. Il fratello di Kiflay, rifugiato in Olanda, ci ha confermato che l’uomo lascia in Eritrea una moglie e un bimbo di 4 anni. È passato dall’Etiopia e poi dal Sudan, dove ha pagato 10 mila euro ai trafficanti per arrivare a Tripoli. Secondo i testimoni due libici armati hanno sparato ai due eritrei a bruciapelo davanti alle due stanze occupate con altri 8 rifugiati. Poi sono fuggiti. Non si conosce il movente. Verranno sepolti nel cimitero cattolico di Tripoli. L’Acnur ha dichiarato che il duplice omicidio prova che non ci sono posti sicuri a Tripoli per i rifugiati. Ma non c’erano dubbi

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