sabato 30 luglio 2022
Viaggio a Iqaluit, la capitale del territorio del Nunavut visitata da papa Francesco. Le tribù autoctone l’hanno abitata per millenni grazie alle acque della baia ricche di pesci e di balene
Una comunità Inuit a Iqaluit, in Canada

Una comunità Inuit a Iqaluit, in Canada - Reuters

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I bambini – in maglietta malgrado i 10 gradi – sfrecciano sulle loro biciclette, sollevando nugoli di polvere, poi si fermano vicino al porto per decidere insieme la prossima meta. Addossati al muretto che separa la strada dalla baia, una decina di adulti dai lineamenti indigeni li guardano, lo sguardo vuoto e le teste ciondoloni. Sono ubriachi. Un altro gruppo, poco lontano, ride sguaiatamente, vicino a dozzine di lattine di birra vuote. Durante una passeggiata per le vie sterrate di Iqaluit, dove il Papa è arrivato ieri nel pomeriggio canadese (la tarda serata italiana), a qualsiasi ora si possono vedere quattro o cinque scene simili.

Iqaluit, la capitale del territorio canadese del Nunavut, che in lingua Inuit significa “la nostra terra”, è un paradiso. Una regione rocciosa, senza alberi, dove cresce ben poco nelle nove-dieci settimane all’anno in cui è libera dalla neve e dal ghiaccio. Ma bellissima e generosa con le tribù autoctone che l’hanno abitata per millenni. Le acque della baia di Frobisher, che protegge la cittadina dalle tempeste del mare del Labrador, sono ricche di pesci, di balene e di diverse specie di foche, compreso il narval, l’unicorno dei mari. I caribù ora sono ridotti in numero, ma fino all’arrivo dei coloni europei hanno nutrito con la loro carne e scaldato con le loro pelli generazioni di Inuit durante i lunghi inverni a meno 50 gradi.

Ma le comunità Inuit, a causa della colonizzazione, hanno perso il loro modo di sussistenza tradizionale e faticano ad adattarsi allo stile di vita occidentale. In Nunavut i giovani adulti di oggi sono solo la seconda generazione cresciuta in città, costretta a studiare e a cercare un lavoro per mantenersi. E il trauma di quel drastico, forzato cambiamento ha avuto effetti devastanti.

«Le conseguenze della dipendenza da alcol nel Nunavut sono ben documentate», spiega Sonia Marchand, direttrice dell’ospedale di Iqaluit. Nella prigione locale il 95% dei detenuti soffre da dipendenza da alcol o droghe. La Royal Canadian Mounted Police stima che fino al 95% delle chiamate di polizia nel territorio sono legate all’alcol. Il Nunavut ha il più alto tasso di violenza coniugale in Canada, più di cinque volte quello dello Saskatchewan, la provincia con più episodi di brutalità tra le mura domestiche. E gode del triste primato del maggior numero di casi di maltrattamento di bambini, sei volte il tasso nazionale.

Anche la malattia mentale è una piaga nota. «Il suicidio è uno dei problemi di salute pubblica più urgenti del Nunavut – continua Marchand – il tasso qui è 10 volte la media canadese. È difficile trovare qualcuno nel Nunavut che non abbia un amico o un familiare che si è tolto la vita». I suicidi iniziarono ad impennarsi negli anni Ottanta, con la prima generazione nata nelle città, i figli di coloro che erano cresciuti sulla terra.

La disoccupazione aumenta il rischio di dipendenza e suicidio. «Il paradosso è che in Nunavut i lavori non mancano, ma c’e un problema di formazione – spiega Torsten Diesel, dell’Inuit Heritage Trust che lavora per la conservazione del territorio e della cultura Inuit –. La maggior parte degli autoctoni non è abbastanza qualificata per lavorare nella pubblica amministrazione. E altri posti, come la costruzione, operano solo d’estate e a ritmi frenetici, sette giorni la settimana. È una mentalità estranea a un Inuk [singolare di Inuit, ndr] che in estate vuole andare a caccia e a pesca, perché sono le sole attività tradizionali che gli restano e che lo tengono unito alla sua famiglia». Solo il 40% degli Inuit ha un diploma di scuola superiore.

Poi ci sono le miniere. Il Nunavut ha tre miniere d’oro e una di ferro fra le più attive al mondo. Vi lavorano circa 4.000 persone, meno di 500 Inuit, molti dei quali rifiutano di partecipare a un’attività che rende ampie regioni inabitabili per gli animali.

La realtà è che Iqaluit, senza il legame tradizionale con la natura, è una città finta, dove uno stile di vita moderno può essere mantenuto solo grazie agli aerei e alle navi che portano automobili, televisioni, carburante per il riscaldamento, latte e pomodori. Ad alto prezzo. In uno dei due supermercati un fustino di detersivo per bucato è in vendita a 69 dollari e i peperoni rossi costano 21 dollari al chilo. «È una comunità artificiale – dice Diesel –. E ormai non può tornare indietro, a un’economia di caccia e pesca. Che cosa sarà degli Inuit? Si adatteranno completamente alla vita urbana, relegando la loro cultura al folclore? Molti indigeni si oppongono a questa possibilità e cercano altre forme di equilibrio. Non so. L’importante, per me, è che smettano di soffrire».

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