martedì 8 marzo 2022
Cosa si può fare per ricostituire il tessuto delle parrocchie sfilacciate da due anni di emergenza? E cos'ha imparato la comunità ecclesiale da questa esperienza? Le riflessionioni del filosofo Fabris
La pandemia? Per la Chiesa non può essere una parentesi
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La pandemia ha cambiato gli equilibri e il modo di vivere le relazioni. Ora alla Chiesa serve fiducia per lasciarsi alle spalle il disorientamento Ora che la pandemia sta allentando la morsa (con un altro e differente incubo ad attanagliare la nostra vita), è opportuno non archiviare i due anni trascorsi sotto l’ombra della pandemia come una parentesi che, una volta chiusa, ci consente di tornare 'come prima'. Perché la società è cambiata, sono nuove le domande che le persone sentono premere dentro di sé, siamo diversi noi. E anche la Chiesa non è più la stessa 'di prima'. Per questo è indispensabile prendersi il tempo di considerare cosa occorre, da adesso in avanti, per riconnettere il tessuto sfilacciato delle comunità, capire cosa trattenere e cosa lasciare delle esperienze fatte, considerare cosa si attende ora la gente dalla presenza ecclesiale, verificare le modalità di una comunicazione della fede che arrivi agli 'estremi confini' dell’umanità, 'sognare' la Chiesa che verrà. In questa pagina settimanale desideriamo proporre, a cadenza periodica, interventi che accompagnino la riflessione per una 'Chiesa post-pandemia'. Dopo Vincenzo Corrado e il vescovo Domenico Pompili, oggi ascoltiamo il filosofo Adriano Fabris. (F.O.)

Non è stata solo una parentesi. Non possiamo ricominciare come se nulla fosse accaduto. La pandemia ha inciso profondamente nelle nostre vite, nei nostri modi di pensare, nella nostra sensibilità. E continua ad avere i suoi effetti: anche se ora sembra che le urgenze, purtroppo, siano altre. La Chiesa non può non fare i conti con questa situazione. Parlo di quella Chiesa che è sempre in uscita, come c’invita a intenderla e a praticarla papa Francesco, cioè di quella Chiesa che è sempre esposta al mondo e impegnata in esso, sebbene animata da una fede che la rimanda al di là del mondo stesso. Tante sono le cose che la pandemia ha cambiato. Ha cambiato le nostre relazioni e i modi in cui le viviamo. Ha modificato le nostre sicurezze. I vari discorsi riguardanti la «società del rischio» (Beck), la «società dell’incertezza» (Bauman), si sono concretizzati in esperienze ben precise. Più ancora, però, questo rischio, quest’incertezza, sembrano non poterci più abbandonare. Ciò che continua a pesare sulla nostra sensibilità è un senso di spaesamento. Siamo disorientati. Questa sensazione accompa- gna la nostra ripresa, la nostra volontà di lasciarci alle spalle quanto abbiamo passato noi e i nostri cari. Ciò dipende dal fatto che la pandemia, in molti aspetti della vita, ci ha messo di fronte alla nostra impotenza. Ci ha fatto vedere che non siamo in grado di prevedere tutto quanto può capitarci, e dunque di governarne gli effetti. Ci ha mostrato che non siamo capaci di controllare pienamente ciò che ci circonda. Resta sempre un margine d’imprevisto che può sorprenderci, anche tragicamente. La pandemia, insomma, ci ha messo di fronte a quei limiti che avevamo dimenticato di avere. Non solo non siamo in grado di conoscere tutto, ma, se anche ciò fosse possibile, non riusciremmo a prevedere tutte le conseguenze derivanti dalle innumerevoli relazioni fra le cose con cui abbiamo a che fare. La realtà è sempre più avanti di ciò che essa riusciamo a pensare. La proliferazione delle varianti del Covid-19 sta a insegnarcelo. Tutto questo resta sullo sfondo delle nostre attività, ormai riprese dopo l’ennesimo calo dei contagi. Resta non solo l’idea che con tale situazione dovremo convivere ancora a lungo, obbligati ad agire con prudenza. Resta soprattutto il disorientamento di chi riteneva di avere sotto controllo ogni cosa, di aver trasformato il mondo nel suo giardino personale, e si ritrova invece in una giungla, esposto a innumerevoli sorprese. Se questo è lo scenario che abbiamo di fronte oggi, non possiamo non farvi i conti. Li possiamo fare ripartendo da una consapevolezza vera, profonda, disincantata, della nostra condizione. Siamo sempre più collegati gli uni con gli altri e mutuamente interdipendenti. Siamo chiamati ad assumerci la nostra responsabilità nei confronti di ogni cosa: tanto più responsabili quanto più gli eventi sfuggono al nostro controllo. Sono i temi su cui papa Francesco ha attirato l’attenzione ben prima che la pandemia mettesse tutto ciò all’ordine del giorno. Siamo esseri relazionali. E le relazioni che ci coinvolgono sono quelle messe alla prova nei legami che uniscono gli esseri umani sia fra loro, sia con tutte le creature. È così che i limiti che oggi sperimentiamo possono darci la consapevolezza di quella nuova forza che oggi siamo chiamati a esercitare. Possono spingerci a operare tutti assieme quel bene che è il frutto di un agire responsabile e che è alla nostra portata solo se ci sforziamo di realizzarlo, appunto, tutti assieme. Da tempo la Chiesa ce lo ricorda. Ma è solo un aspetto della questione. Se infatti ci concentriamo solo su queste relazioni, non siamo in grado di rispondere pienamente al disorientamento di cui parlavo. I nostri limiti non possono essere colmati solo dalla solidarietà degli altri, ma ci spingono verso una dimensione ulteriore. La nostra capacità di relazione non è solamente orizzontale, ma può compiersi nella verticalità di un affidamento. È anche di questo aspetto che deve tenere conto la riflessione e la pratica della Chiesa dopo la pandemia. Oggi, forse, vi è più spazio per la fede. Non perché l’impotenza dell’essere umano dev’essere compensata da un’onnipotenza divina. Non perché, in un gioco di pieni e di vuoti, va attuato un riequilibrio della potenza. Anzi: è proprio la logica della potenza che il cristianesimo, nell’icona del Dio crocifisso, contesta radicalmente. Bisogna invece ricordare che, quando tutto non è scontato, quando non è più lecito pretendere, possiamo chiedere: chiedere a Chi può darci qualcosa che noi scopriamo di non avere. Per chiedere è necessario affidarsi. E per affidarsi bisogna essere capaci di fiducia. Nel coraggio della fiducia può riprendere il cammino dell’umanità dopo la pandemia: un cammino non solo più giusto e più vero - in quanto capace di fare in conti con la realtà delle cose -, ma anche più equilibrato. E il disorientamento verrà lasciato alle spalle. Professore di filosofia morale © RIPRODUZIONE RISERVATA Sopra, Adriano Fabris

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