mercoledì 17 gennaio 2024
L'arcivescovo di Torino ha scritto una lettera agli under 30. «Credete nella potenza delle vostre idee, non servono atti di forza. Rompiamo la gabbia dell'antropologia del narcisismo»
L'arcivescovo Roberto Repole assieme ai giovani di Torino

L'arcivescovo Roberto Repole assieme ai giovani di Torino - .

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«Ci tengo a dire che ho una grande fiducia in voi giovani. Penso che abbiate delle potenzialità sconosciute a noi adulti. Guardo con ammirazione alla vostra sensibilità per la custodia della Terra, per la convivenza di popoli diversi, per l’accoglienza di ogni essere umano comunque egli sia». Scriveva, così, lo scorso 17 ottobre, Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, in una lettera rivolta agli under 30 per invitarli a un ciclo di catechesi mensili sulla Parola. Un pensiero lungimirante il suo. La mobilitazione dei ragazzi a Dubai e nel resto del mondo in occasione della recente Conferenza Onu sul clima (Cop28) gli ha dato ragione: le loro proteste nonviolente e creative hanno avuto un ruolo fondamentale nello spingere i negoziatori a rompere il tabù e chiedere ai Paesi di avviare l’uscita dai combustibili fossili.
In che senso i giovani hanno delle “potenzialità sconosciute”?
Nel modo di percepire. Sulla crisi ecologica, ad esempio, ne comprendono appieno il pericolo per il mondo e l’umanità. Sono molto lucidi nel capire che il mito del progresso e del consumo illimitati possono causare l’implosione della nostra casa comune. Attenzione che ritroviamo sia sul piano collettivo sia su quello degli stili di vita individuali. Su questo terreno c’è una convergenza naturale con la Chiesa per cui è stato il Signore ad affidare all’essere umano la custodia del Creato. Anzi, proprio grazie alla sensibilità dei giovani, la Chiesa ha l’opportunità di riscoprire una parte importante della Rivelazione – il Dio creatore che costruisce una casa per le sue creature – per rioffrirla a loro e a tutti.
Come fa sì che da questa convergenza nasca un dialogo costruttivo?
Il primo passo è mettersi dalla loro parte. Provare, cioè, a pensare a che cosa significhi essere giovani nel ventunesimo secolo. I ragazzi sono pochi e, intorno, non trovano prospettive culturali che regalino loro uno sguardo di fiducia sul mondo. Anzi, al contrario. Mettersi dalla loro parte significa ascoltarli. Senza trattarli da bambini. Facendo, dunque, loro proposte alte perché sono in grado di essere interlocutori.
L’ascolto o, meglio, la sua mancanza da parte degli adulti sui temi a loro più cari, a cominciare dalla tutela dell’ambiente, genera nei giovani frustrazione che si esprime in molti modi. Lei stesso ne ha fatto recente esperienza con le attiviste di Extinction rebellion. Dietro la provocazione, però, si scorge l’urgenza di essere presi in considerazione. Che messaggio dare a questi ragazzi?
Vorrei dire loro: abbiate fiducia nella potenza delle idee che portate avanti. Sono belle e buone. Per questo non hanno necessità di intemperanze, di atti di forza che spesso distraggono dal messaggio piuttosto che sottolinearlo.
Che cosa dice il grido dei ragazzi alla Chiesa e al mondo?
Che dobbiamo pensare una terra in grado di ospitare tutte le generazioni. Questo vuol dire mettere in discussione la logica dei diritti individuali come intoccabili e della soddisfazione di ogni necessità. Vuol dire avere il coraggio di rompere la gabbia dell’antropologia del narcisismo e accettare la fatica del vivere insieme, facendo spazio alla libertà dell’altro.


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