"Quelli dell'ultimo" di Vicenza - archivio
Non c'è qualcosa da fare, non servono talenti particolari, basta “andare a stare”. E, soprattutto, sorridere. Perché anche chi vive il dramma, ha diritto alla leggerezza. È nata, così, spontaneamente, senza aspettative, diciassette anni fa, l'iniziativa della pastorale diocesana di Vicenza, oggi guidata da don Matteo Zorzanello, e della Caritas, intitolata “Quelli dell'ultimo”. Un capodanno alternativo, l'“ultimo da trascorrere con gli ultimi”: anziani, malati terminali di HIV, senza tetto, immigrati, persone dipendenti da sostanze, con disabilità, in stato alternativo alla detenzione, o che vivono in case famiglia. «Era l'ultimo dell'anno del 2009.
Solita domanda: che si fa? “Andiamo dai senza tetto”: un amico, che conosceva la proposta di “Quelli dell'ultimo”, mi convince - racconta Diego Buratto, ingegnere e cantante lirico -. Carichi di entusiasmo, arriviamo. E tutta la voglia di andare a divertirsi, di far belle azioni, vanno in frantumi. Rimango scioccato a vedere certe facce, barboni sporchi, alcuni puzzavano di alcol, di fumo. “Iniziamo bene”, pensai. Uno dei tanti mi chiama, sembra quasi ubriaco, mi chiede: “Ma tu che sei cantante, conosci l'Ave Maria?” Certo, dico. Lui dice ai suoi compagni: “Silenzio tutti (persone di varie religioni), quest'amico mio canta l'Ave Maria per tutti noi”. Poi mi dice: “Sai. Maria è mamma di tutti noi, io ricordo sempre Lei”. Sono scosso da quelle parole. Così canto l'Ave Maria di Schubert più emozionante della mia vita. Loro applaudono, sono felici. Lui si avvicina, mi abbraccia e mi stringe forte, non ci penso neanche alle condizioni. Una giacca a vento sporca, umida e che certamente non profuma di J'adore di Dior. Quest'esperienza mi ha cambiato la vita».
Elisa Montemaggiore, 47 anni, ha partecipato alla prima edizione con l'obiettivo di svolgere un servizio, poi è divenuta sherpa, il nome con cui si è scelto di chiamare quanti coordinano i gruppi che si recano nelle varie realtà. «Sono andata in casa di riposo. Mi ha colpito tanto. Stai lì un paio d'ore, senza fare nulla di particolare, qualche canto, una tombola, una partita a carte, oppure ascolti i racconti del tempo che fu, e subito vedi fiorire la gioia». Elisa è insegnante alla scuola primaria; ai bambini racconta la sua esperienza e li coinvolge. «Assieme abbiamo costruito dei giochi che questo 31 dicembre donerò agli anziani. È bello tornare in un luogo dove si è già stati, scoprirsi amici, ritrovare volti conosciuti, che poi restano nel cuore. Per me è come essere parte di una famiglia allargata. Andare significa donarsi, ma si riceve mille volte tanto. La fede dei giovani non è solo teoria».
Il punto di ritrovo è nella parrocchia di San Giuseppe, in via Mercato Nuovo, a Vicenza. «I ragazzi arrivano per le 14, si iscrivono e noi spieghiamo loro la proposta e le regole base del volontariato, perché molti si cimentano per la prima volta - spiega Valentina Cazzola, coordinatrice, assieme a Fabrizio Pezzuolo, di “Quelli dell'ultimo” -.
Ci rivolgiamo a ragazzi dai 16 ai 35 anni, ma quest'anno abbiamo aperto anche alle famiglie con bambini e ai genitori single. Prima del Covid, partecipavano anche 400 giovani, adesso siamo sui 150. Ad accoglierci sono una quarantina di realtà del territorio vicentino, con cui collaboriamo da anni, e che per questo ci aspettano sempre con grande trepidazione. I volontari vanno in gruppo, accompagnati dallo sherpa. Naturalmente, ci adattiamo ai ritmi del luogo che ci ospita. Se andiamo in casa di riposo, sappiamo che, sulle 19.30-20, sarà tutto finito; in casa famiglia magari ci fermiamo fino a mezzanotte per il brindisi. Per chi conclude presto l'esperienza, c'è la possibilità di tornare da noi in parrocchia dove, alle 22.30, c'è la veglia, e un momento di festa. È un'iniziativa che “prende”. Molti vengono per curiosità, perché ne hanno sentito parlare, dopo tanti anni il passaparola va forte, poi c'è chi è incappato nel sito (www.quellidellultimo.it.), chi è portato da un amico.
Arrivano da soli o in gruppo, anche da fuori diocesi». È molteplice l'esperienza di Mariachiara Baldi, 31 anni, titolare di un'azienda agricola, da quest'anno anche nell'équipe organizzativa: centro per persone con dipendenza, poi tra gli alcolisti, una casa famiglia con persone affette da HIV. «Si va dove c'è bisogno. E io non mi sono mai tirata indietro: quello che mi è stato proposto, l'ho accettato. È anche una sfida con sé stessi. All'inizio, ci può essere un po' di paura, ma sapendo di star facendo del bene, ogni ostacolo viene meno. Anche con le persone malate terminali, abbiamo cercato di rendere la serata il più normale possibile, con canti e giochi. Abbiamo organizzato una cena, confrontandoci anche con loro, in particolare con uno che aveva lavorato come chef, prima di doversi confrontare con questo problema di salute. Una signora ha letto le sue bellissime poesie. Prima di ammalarsi, aveva tanto viaggiato. Mi ha commossa. Anche se ci si conosce da poche ore e si resterà insieme per poche ore, si cerca di creare un ambiente familiare.
Niente domande morbose. Se qualcuno ha voglia di condividere la propria storia, bene, ascoltiamo, altrimenti, si parla d'altro, si porta solo la propria compagnia». «Il bello è proprio andare senza aspettative - aggiunge Manuel Nicoli, trent'anni, ingegnere -. Vai e vivi il momento. Poi, quando vai via, provi un po' di dispiacere ma, allo stesso tempo, ti senti carico di gioia e di emozione. E sai che anche loro si sentono così. Perché hanno trascorso momenti diversi, fuori dall'ordinario. Io cerco sempre di coinvolgere ragazzi nuovi. E, quando qualcuno mi dice che gli piacerebbe, ma si sente in imbarazzo, perché non sa fare nulla di particolare, io rispondo che basta esserci, e poi qualcosa verrà in mente. Si improvvisa. Come quella volta che eravamo in una casa di riposo con la maggior parte degli ospiti non autosufficienti. Loro non potevano muoversi, così siamo andati noi, stanza per stanza, “a cantare la stella”. I loro visi si illuminavano, il nostro cuore si scaldava». Diego, Elisa, Valentina, Mariachiara, Manuel, non hanno dubbi: «Provare per credere!».