lunedì 21 novembre 2022
La Lega vuole promuovere le nozze religiose con un aiuto economico, poi fa marcia indietro e allarga l'offerta. Palazzo Chigi prende le distanze. Perché il proposito è buono ma non sostenibile
Un bonus per incoraggiare i matrimoni in chiesa, la Lega fa retromarcia

Un bonus per incoraggiare i matrimoni in chiesa, la Lega fa retromarcia - Ansa

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Quando un proposito lodevole – incoraggiare i giovani a sposarsi in chiesa – viaggia con un mezzo sbagliato, contrario alla Costituzione e al diritto canonico. Perché offrire un bonus alle coppie che decidono di pronunciare il loro “sì” all’altare risulterebbe una scelta discriminatoria tra matrimoni religiosi e civili, insostenibile per uno Stato laico come il nostro. Mentre per il diritto canonico il matrimonio è un sacramento che dev’essere frutto di una scelta libera e condivisa. Non caso tra gli “impedimenti dirimenti”, quelli che don Abbondio elencava contandoli sulle dita davanti al povero Renzo (Error, conditio, votum, cognatio, crimen, cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis) facendogli venire il mal di testa, c’è la “condizione” (can. 1102) per cui non si può contrarre validamente il matrimonio se la scelta viene condizionata, appunto, dall’obiettivo di ricevere un bonus economico.

Ecco perché, la proposta della Lega per "rilanciare il matrimonio religioso” - un bonus fino a 20mila euro per chi si sposa in chiesa – è stata subito modificata comprendendo tutti i matrimoni, quelli civili compresi La proposta di legge era stata depositata alla Camera dai deputati del Carroccio Domenico Furgiuele, Simone Billi, Ingrid Bisa, Alberto Gusmeroli ed Erik Pretto. La formula era quella della detrazione del 20% delle spese connesse alla celebrazione del matrimonio, quali ornamenti in Chiesa (fiori decorativi), passatoia e libretti, abiti per gli sposi, ristorazione, bomboniere, servizio di coiffeur e make-up, servizio del wedding reporter. Ma da Palazzo Chigi è arrivata subito la precisazione: Si tratta di "un'iniziativa parlamentare e non del governo". Tanto per prendere le distanze e far capire che risorse per l’obiettivo matrimonio non ne sono previste.

Una decisione che ristabilisce la giunta distanza tra provvedimenti pubblici e scelte personali, che partono – e devono partire - da un’intima convinzione di vita e di fede, come ribadito anche dall'arivescovo Vincenzo Paglia, presidente dell'Accademia per la vita e gran canceliere del Pontificio Istituto "Giovanni Paolo II" per studi su matrimonio e famiglia: "Il matrimonio per la Chiesa è un sacramento e un sacramento non si compra. Il credente che sceglie la celebrazione del matriomonio in Chiesa, non si fa convincere a questo passo dalle detrazioni economiche". Ecco perché pensare che tutto si possa risolvere con un bonus lascia un po’ d’amaro in bocca. Per sostenere le scelte delle giovani coppie che decidono di sposarsi, più che bonus una tantum, ci vorrebbero invece politiche familiari mirate e costanti, con un investimento finalizzato a sostenere la vita familiare nella sua globalità, accompagnandola con coerenza e determinazione in tutte quelle tappe che ne caratterizzano il percorso esistenziale. Insomma, benissimo se ci fosse un bonus non discriminatorio nei confronti di chi sceglie il matrimonio civile ma per essere efficace e credibile dovrebbe essere inserito in un piano di politiche coerenti, come appunto il Family Act. Ma basterebbe? Studi importanti, a cominciare dall’ultimo saggio dello psicanalista Luigi Zoja sul declino del desiderio nel mondo occidentale, spiegano che a rendere sempre meno attraenti e meno solide le relazioni, non ci sarebbero cause esterne, come appunto quelle di natura economica, ma di ordine culturale e psicologico, legate soprattutto a una sessualità “liberata” a tal punto da non suscitare più alcun interesse. Una tesi, sostenuta con declinazioni diverse, anche da altri esperti che si interrogano da tempo sul crollo non solo dei matrimoni ufficiali, ma anche delle convivenze.

I numeri, come sempre, sono difficilmente contestabili. Nel 1940 il 98,7 per cento dei matrimoni avveniva in Chiesa. Ancor vent’anni dopo, i matrimoni celebrati con rito religioso superavano il 98%. Dalla fine degli anni ’70 comincia la discesa. Nel 1990 i matrimoni religiosi sono l’83,2%, nel 2010 scendono al 63,5. Nel 2015 le copie conviventi non sposate sono quasi l’8 per cento, con differenze territoriali ancora significative (3,7% a Sud a fronte dell’11,7 % del Nord Est). Nel 2020 le coppie che vivono in libera unione sono complessivamente il 10 per cento e quasi un nuovo nato su tre ha i genitori non coniugati. Mentre la frequenza del rito civile appare crescita costante. Nel 2020 arriva al 61,1% sul totale dei matrimoni. Mentre in forte calo risultano quelle con rito religioso (-67,9%) e i primi matrimoni (-52,3%). Colpa soltanto di sostegni pubblici inadeguati?

L’analisi della Chiesa, con relativa autocritica, è impietosa, e non da ora. Già nel 2016 papa Francesco ha scritto in Amoris laetitia: “Spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione… Altre volte abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva – dice ancora il Papa - soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario”.

Ecco i punti su cui riflettere di fronte al crollo dei matrimoni religiosi in Italia e in tutto il mondo occidentale.

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