La transizione di genere e i bambini: «Che consenso si può dare a 13 anni?»

La decisione del Tribunale di La Spezia di rettificare il sesso di un’adolescente all’anagrafe riapre il dibattito sulla tutela dei diritti dei più piccoli Tutti i dubbi della Garante per l'infanzia, Marina Terragni
December 23, 2025
Un ragazzino si guarda allo specchio
Un ragazzino si guarda allo specchio
Fino a che punto un minore può decidere sul proprio corpo e sulla propria identità, e chi è chiamato a garantire che quella scelta sia davvero consapevole? La vicenda di La Spezia finisce sotto i riflettori dei media proprio mentre in Parlamento è entrata nel vivo la discussione sul disegno di legge che mira a regolamentare in modo più stringente i trattamenti per la disforia di genere in età evolutiva. Ad essere audita in proposito, nei giorni scorsi, è stata la Garante per l’infanzia e l’adolescenza Marina Terragni, che sui diritti dei più piccoli e sulla necessità della prudenza quando si tratta di intervenire in una fase della vita segnata da fragilità e trasformazioni profonde non ha alcun dubbio.
Lei sostiene che il nodo centrale della questione della transizione di genere sia quello del consenso. Perché?
Perché con evidenza lo è. Possiamo davvero pensare che un bambino di nove, dieci o anche tredici anni sia in grado di esprimere un consenso pienamente informato a un percorso che ha conseguenze profonde, potenzialmente irreversibili, sulla salute riproduttiva e sulla funzionalità sessuale? Come si spiega a un minore, con parole comprensibili, cosa significa compromettere la fertilità o intervenire su processi biologici complessi come la pubertà? Il consenso non è una formula giuridica astratta: è comprensione, capacità di previsione, maturità. E queste, nell’infanzia e nella prima adolescenza, semplicemente non esistono ancora. La constatazione per altro emerge con forza da alcune delle chat più agghiaccianti contenute nei Wpath files, lo scandalo che un anno e mezzo fa ha coinvolto quella che fino ad allora era ritenuta la massima autorità scientifica e medica globale in fatto di salute transgender.
A cosa si riferisce?
Vennero rese pubbliche molte delle chat e dei documenti interni a uso di chirurghi, terapisti e attivisti legatiall’organizzazione, nei quali emergevano la superficialità ideologica e il cinismo degli approcci. L’aspetto più sconvolgente riguardava proprio il consenso: in quelle chat i medici ammettevano di essere perfettamente consapevoli del fatto che bambini e adolescenti non sono in grado di esprimere un vero consenso alla cosiddetta “terapia affermativa” perché incapaci di comprenderne le conseguenze: «È come parlare al muro, la maggior parte dei ragazzi non ha nessuno spazio cerebrale per parlarne in modo serio» scrivevano. Di più, secondo la Wpath neanche le famiglie capiscono bene, «gente che magari non ha manco studiato biologia a scuola… – scriveva un terapista –, non riescono nemmeno a formulare le domande riguardo a un intervento medico per il quale hanno già sottoscritto il consenso».
Un altro punto di svolta internazionale è stato il Cass Review del 2024, che lei ha citato nella sua recente audizione in Parlamento. Che cosa ci dice quello studio?
Dice cose molto nette. Che la terapia affermativa si è rivelata un fallimento sistemico. Che non ci sono prove di un aumento del benessere dei minori trattati. Che non è dimostrato alcun effetto protettivo sul rischio suicidario. Che i pazienti non sono stati adeguatamente monitorati. E che prima dei 18 anni non si dovrebbe avviare alcuna transizione medica, invitando comunque alla massima cautela almeno fino ai 25 anni. Il Cass Review chiede un approccio olistico, centrato sulla valutazione psicologica e sul tempo come fattore di cura.
Non è un caso se dopo anni di applicazione estensiva della cosiddetta “terapia affermativa” molti Paesi occidentali hanno cambiato rotta...
Dal Regno Unito alla Svezia, alla Finlandia, agli Stati Uniti fino alla Nuova Zelanda, là dove questi trattamenti sono stati praticati per anni su decine di migliaia di minori, si stanno facendo i conti con l’assenza di prove solide sui benefici e con l’emergere di rischi significativi, rivedendo criticamente le proprie scelte. Anche l’Italia sta muovendo i suoi passi: fino a poco tempo fa non avevamo nemmeno dati certi, non sapevamo quanti minori fossero trattati con triptorelina off label, quali protocolli fossero effettivamente adottati, quali fossero i follow up. Arriviamo dopo, ma possiamo evitare di ripetere gli stessi errori. Il ddl all’esame del Parlamento va nella direzione giusta: rimette al centro la salute dei minori, che è la missione dell’Autorità che rappresento. Introduce prudenza, tracciabilità, responsabilità. E il fattore “tempo”.
I dati d’altronde dicono che nella maggioranza dei casi la disforia in età evolutiva non persiste.
La cosiddetta “desistenza” è un esito frequente se si accompagna il minore senza medicalizzare precocemente. Bloccare la pubertà non è un gesto neutro, né reversibile come spesso viene raccontato. La pubertà è un processo multisisistemico, non un interruttore “on-off”.
Lei ha citato più volte anche il contesto culturale e sociale.
Sì, perché la platea dei minori che oggi chiedono la transizione è profondamente cambiata. Assistiamo a un aumento impressionante di adolescenti femmine, spesso con esordio improvviso della disforia, frequentemente in comorbilità con ansia, depressione, disturbi alimentari, autolesionismo. Ignorare il ruolo del contagio sociale, dei social network, dell’isolamento – accentuato dalla pandemia – significa non voler vedere la complessità del fenomeno.
In questo scenario, che ruolo deve avere la politica?
Garantire che le decisioni più delicate non siano dettate dall’ideologia o dall’urgenza, ma dalla responsabilità verso chi non ha ancora gli strumenti per difendersi. Proteggere i minori non significa negarli, ma accompagnarli. Dare tempo, ascolto, cura. E soprattutto non caricarli di scelte che li segneranno per tutta la vita prima ancora che abbiano avuto il tempo di diventare adulti.

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