mercoledì 22 maggio 2024
Giuseppe Delmonte ha fondato una onlus e l'ha chiamata Olga come la mamma uccisa da suo padre a colpi d'ascia 27 anni fa: io e i miei fratelli siamo stati lasciati soli. Non deve più accadere
Giuseppe Delmonte e la mamma Olga, tre anni prima che lei venisse uccisa

Giuseppe Delmonte e la mamma Olga, tre anni prima che lei venisse uccisa

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Si chiama “Olga”, acronimo che sta per “oltre la grande assenza”. Per questo è nata la onlus: per colmare la distanza che separa le vittime di violenza dalla politica e dalle istituzioni.

Ma prima di tutto il nome è quello di Olga Granà, morta a 51 anni per mano dell’ex marito, e madre di Giuseppe Delmonte, 47enne, fondatore dell’associazione appena presentata nel capoluogo lombardo. Un progetto che grazie alla collaborazione di uno staff di professionisti in ambito sanitario, educativo e legale, punta a promuovere iniziative psicologiche, pedagogiche e formative, anche grazie alla collaborazione delle forze dell’ordine.

Giuseppe aveva appena 19 anni quando la sua mamma è morta ad Albizzate, nella provincia di Varese, caduta sotto i colpi d’ascia inferti il 26 luglio del 1997 dal coniuge che lei aveva lasciato. La sua, come tante, è stata la cronaca di un omicidio annunciato. “Mia madre lo diceva sempre: vostro padre mi ammazzerà. Ma anch’io, mio fratello e mia sorella vivevamo nel terrore, non potevamo ridere né guardarlo negli occhi. Quando avevo tredici anni, e i miei fratelli erano già maggiorenni, avevamo chiesto a nostra madre di separarsi, l’avremmo protetta noi.

Ma la situazione non cambiò. A quella decisione seguirono più di cinque anni di botte, minacce e soprusi. “Fino a quel mattino, davanti all’ufficio postale, dove era andata a ritirare il vaglia postale di 500 euro, che mio padre doveva pagare secondo l’accordo di separazione, il primo dei contributi economici che non ci avrebbe mai riconosciuto”. Ai figli di Olga viene concessa la scorta per quattro giorni durante i quali il padre, latitante, si nasconde in Sicilia. “Eravamo in pericolo: un testimone che era con lui, la sera prima dell’omicidio, disse alle autorità che mio padre aveva intenzione di sterminare tutta la famiglia”.

L’uomo attualmente si trova in carcere con una condanna all’ergastolo, arrivata dopo anni di processi e lotte giudiziarie ma anche di grande sofferenza per i figli. “Siamo stati lasciati da soli, completamente abbandonati dallo Stato, dal quale non è mai arrivato alcun sostegno economico. Eravamo indifesi, senza tutele né leggi specifiche che prendessero in carico la nostra situazione”. Giuseppe sottolinea quanto invece sarebbe stato prezioso in quel momento un supporto, soprattutto psicologico. “Non avevo la capacità di affrontare un dolore così devastante, perciò l’unico rimedio possibile per me è stato quello di rimuovere tutto, fino a decidere di cambiare casa e lavoro. Per vent’anni”, ammette commosso “ho raccontato che i miei genitori erano morti in un incidente stradale, pur di non affrontare la tragica realtà”.

Poi la scelta di affidarsi alla psicoterapia e da lì, la difficile elaborazione della violenza e della perdita, fino alla rinascita. “Molto di quel tormento sarebbe stato più lieve se l’aiuto fosse arrivato subito. Per questo oggi voglio essere vicino a tutti i piccoli che restano senza genitori e intendo alzare la mia voce verso tutte le istituzioni: assicurate loro un supporto psicologico immediato. Questi giovanissimi hanno bisogno di ascolto, di sfogare la propria rabbia, di trasformare la sofferenza in riscatto e in un nuovo progetto di vita”.

Intanto l’associazione, fanno sapere gli esperti del team, sta già facendo la sua parte, promuovendo in tutta Italia “quel cambiamento culturale che verrà prima delle norme”, assicurano. “La legge che tutela gli orfani di crimini domestici”, fa presente Delmonte, “risale al 2018 ma non è ancora sufficiente, basti pensare che i risarcimenti restano legati ai tempi estenuanti della burocrazia. Inaccettabile poi che ancora non esista un censimento di questi orfani speciali. Sono tutte emergenze, queste, sulle quali la mia associazione è pronta a scendere in campo”.

Da due anni il 47enne porta la sua testimonianza nelle scuole, per contribuire alla prevenzione di un male così diffuso nel nostro Paese, e ad educare i più giovani alla cultura della non violenza, partendo dalla condivisione e dall’ascolto. “Ricordo ai ragazzi quanto è dannosa anche l’indifferenza, come quella che hanno dimostrato i nostri vicini. Nessuno è mai intervenuto per aiutarci, nonostante di continuo si levassero urla spaventose dalla nostra casa”.

Giuseppe ha rivisto suo padre in carcere dopo 22 anni. “Gli ho chiesto: ti sei reso conto di avermi rovinato la vita? Ha abbassato gli occhi senza rispondere. In quel momento gli ho detto che non ci saremmo più visti. Così è stato, e da quel giorno è cominciata, davvero, la mia seconda vita”.

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