giovedì 29 febbraio 2024
Lo psicologo dell'educazione Daniele Mugnaini: la scienza psicologa e psichiatrica non ha granitiche certezze sulla comprensione di queste situazioni. Vanno ascoltate anche voci fuori dal coro
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Quando vengono trattati temi sulla famiglia capita spesso di sentire qualcuno fare riferimento a un singolo studio afferente alle scienze umane, alla psicologia, alla pedagogia, alla sociologia e affermare “la scienza sostiene…”, “la ricerca scientifica ha dimostrato…”. Ma è credibile? Quanto le conclusioni di ricerche e di analisi che toccano da vicino la vita della famiglia possono essere assunte per orientare le nostre scelte esistenziali? Sono domande che diventano cariche di significati intensi, anche drammatici, quando le questioni toccano da vicino ambiti delicati e controversi come le questioni dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere. Sembra che questi temi siano ormai quasi esclusivamente presidiati da una sorta di pensiero unico che impedirebbe di dibattere, argomentare, cercare soluzioni che non siano quelle dettate da chi stabilisce ciò che è corretto e ciò che invece sembra deviare dalla linea “ufficiale”. Una uniformità di pensiero che rischia – almeno in alcuni casi - di rendere poco conto della complessità del fenomeno. Ne parliamo con Daniele Mugnaini, psicologo dello sviluppo e dell’educazione (presidente, fino alla sua fine, dell’Associazione Psicologi e Psichiatri Cattolici della Toscana).

«Lo stesso manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association, il DSM-5-TR, afferma che l’ambito del sesso e del genere è fortemente controverso (p.613 del DSM-5-TR, 2023). Se ne deduce - spiega Mugnaini - che la scienza psicologica o psichiatrica non ha granitiche certezze nell’ambito di come comprendere e intervenire sul fenomeno identità (e incongruenza) di genere. Le scienze mediche e psicologiche adottano vari metodi di ricerca quantitativa, che forniscono risultati più o meno utili a comprendere e intervenire su certe condizioni. Il dato che rischia di essere ignorato, soprattutto quando tali risultati vengono diffusi al “mondo laico” – cioè a tutti coloro che non specialisti di psicologia - e che in un certo senso è linguisticamente controintuitivo, è che esistono numerosi livelli di evidenza scientifica, che vanno da evidenze di bassa qualità a evidenze di alta qualità. Quest’ultime solitamente sono confortate da meta-analisi che tengono conto di numerosi studi su migliaia di soggetti e accurate elaborazioni statistiche».

Qualcuno si potrebbe chiedere: ma allora questa è un’evidenza o non è un’evidenza? Come a chiedersi se si tratta di un dato certo, incontrovertibile, oppure no.

È una domanda scorretta. Le domande che bisognerebbe porci, prima di farne tesoro, approcciando un risultato di una ricerca in ambito psicologico, sono: La ricerca è metodologicamente corretta e affidabile (è stata rivista e apprezzata da una rivista scrupolosa nell’analisi metodologica; esistono conflitti di interesse)? Le conclusioni tengono conto di tutte le conoscenze pregresse (o mancano alcuni dati della ricerca precedente)? I limiti dello studio sono stati correttamente riconosciuti e le conclusioni sono correttamente deducibili dai risultati emersi dallo studio? Quale è il “livello di evidenza” del risultato (insito anche nella particolare metodologia utilizzata) e soprattutto delle sue conclusioni? Ora, non ci si aspetta dal “laico” che abbia le competenze e le conoscenze per rispondere a queste domande. Ecco perché esistono riviste particolarmente affidabili e scrupolose nell’analisi metodologica, e linee-guida e documenti, prodotti nell’ambito di associazioni professionali, che vengono elaborati per specificare i livelli di evidenza e orientare i clinici e a volte pure la popolazione generale e la politica. A questo punto la questione riguarda la qualità delle Linee-guida. Infatti, anche in questo caso ce ne sono di diversa qualità. In questo ambito la domanda per eccellenza, per sfuggire a strumentalizzazioni politiche, dovrebbe essere: quanto questo Documento riassuntivo delle evidenze è metodologicamente corretto e completo? Solo se lo fosse infatti sarebbe anche realmente rilevante alla controversia culturale intorno a un determinato tema.

Proviamo a indagare la scientificità delle risposte psicologiche alle domande più frequenti delle persone partendo dai temi dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere. Non le sembra che in questi ultimi decenni si sia affermata una linea che impedisce di mettere in discussione tutto ciò che non risulta “politicamente corretto”?

Se per punti fermi allude a evidenze a cui tutti devono aderire nella misura di un alto “livello di evidenza”, pena la perdita di credibilità, o perfino la censura professionale, è corretto riferirsi a Linee-guida benfatte che ne dimostrino la fondatezza. Rispetto a tutto ciò che non è evidenza di elevata qualità, è invece auspicabile ascoltare voci fuori dal coro che sottolineano i limiti delle ricerche e recepire eventuali spunti preziosi. Chi pubblica e diffonde dati di ricerca psicologica ha il dovere di riconoscerne i limiti per evitarne un uso inappropriato, per evitare cioè che il pubblico male interpreti e gli dia una rilevanza che in realtà non ha. Quindi, cartina tornasole di un “pronunciamento scientifico” è quanto analizza ed esplicita i livelli di evidenza e scientificità dei dati, quanto esso è coerente con le evidenze a disposizione, quanto è condiviso da ricercatori accreditati e afferenti a posizioni diverse, quanto riesce a dare ragione della complessità multidisciplinare e intradisciplinare del fenomeno, quanto riesce a descrivere con rispetto i termini delle controversie e i dati a favore delle diverse posizioni, e quanto rimanda ai limiti delle proprie conclusioni, anche in termini di implicazione clinica o perfino politica.

Oggi sono sempre più numerosi i/le giovani che rivendicano un’identità di genere non binaria. Qui parlare di “scientificità” della risposta psicologica sembra davvero azzardato. Su questa come su altre frontiere dei temi di genere, non le sembra sia più onesto ammettere un percorso in via di sviluppo piuttosto che nascondersi dietro certezze che tali non possono essere?

Si è detto che una comunicazione scientifica consiste nel dire esattamente cosa la ricerca dice e poco più. A questioni esistenziali servono risposte umane, complesse. Intorno al tema dell’identità la connessione con i personali assunti filosofico-antropologici e spirituali è così stretta da costringerci a partire di lì. E invece che costituire l’aspetto negativo della questione, tale connessione forse ne è la particolare opportunità. La sfida è il recupero della dimensione identitaria nei termini di “chi sono” e “cosa o chi mi sento chiamato a diventare/realizzare”: è una dimensione che si sviluppa molto precocemente, che si ravviva particolarmente nell’adolescenza, ed è centrale nei casi in cui ci sia un disagio nell’identificarsi in modo conforme al proprio sesso. Per quanto riguarda la nostra fede, ha anche a che fare proprio con l’appello evangelico, secondo il quale è rilevante sentirsi definiti e riconosciuti come figli amati da Dio, chiamati con Lui a realizzare un Disegno pensato per noi, iscritto anche nelle nostre caratteristiche temperamentali. Questo lo accenno soltanto per riprendere il concetto già esposto: la risposta psicologica è appropriata quando riconosce i propri limiti, i punti di connessione con le altre discipline dell’umano, e quando sa dialogare con esse. E questo lo possiamo certamente chiamare un “percorso in via di sviluppo”.

Proprio ammettendo questa – inevitabile e anche auspicabile - evoluzione dell’approccio psicologico non dovremmo arrivare a considerare l’impossibilità di una risposta unica e offrire pari dignità a letture diverse, quando comunque fondate sulla serietà degli studi e sull’ampiezza della sperimentazione?

Credo di sì. Anche le Linee-guida in ambito psicologico dovrebbero recuperare questa articolazione dell’approccio, presente già, ad esempio, in qualche misura nel Report of the Task Force on Gender Identity and Gender Variance, dell’APA (2009), dove si parlava degli interventi cognitivo-comportamentali come possibilità promettenti da approfondire e sviluppare. Poi comunque in tutte le culture esistono interventi educativi e di aiuto che esulano dall’ambito clinico. In ambito cattolico, dovremmo poi poter integrare in modo armonico le prassi derivanti dal Magistero con moderne e ben fatte Linee-guida provenienti dalla psicologia. Non dovremmo però accettare in modo acritico ogni pronunciamento che faccia riferimento a documenti o linea-guida su argomenti di interesse psicologico, senza interrogarsi sui suoi livelli di scientificità.

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