sabato 18 novembre 2023
Storia di Karin Falconi, 51 anni, mediatrice familiare, che dopo aver conosciuto la sofferenza del rifiuto, adesso promuove campagne per l'accoglienza dei minori "incollocabili"
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L’affido familiare – secondo quanto stabilito dalla legge - dovrebbe durare solo due anni, ma succede spesso che ci siano minori definiti dai servizi sociali «incollocabili» perché troppo grandi di età, o malati, o caratterialmente complicati, per i quali il tempo di accoglienza in famiglia si prolunga ben oltre i “canonici” 24 mesi. Proprio di loro ha deciso di occuparsi Karin Falconi, mediatrice familiare e counselor esperta nel sostegno alla genitorialità affidataria e adottiva. Responsabile del progetto “Affidiamoci” (che diffonde e sostiene la cultura dell’accoglienza anche da parte dei single e delle coppie Lgbt+, www.affidiamoci.it) e vicepresidente nonché socia fondatrice nel 2017 dell’associazione M’aMa-Dalla Parte dei Bambini (www.MammeMatte.com), è autrice del romanzo “Non vi ho chiesto di chiamarmi mamma. Cronaca di un affido sine die”, pubblicato da Avagliano editore ed Edizioni Lavoro, che verrà presentato oggi, domenica 19 novembre, alle 17 presso il Caffè letterario in via Ostiense 95 a Roma. Contestualmente verrà lanciata dall’associazione la campagna omonima itinerante di sensibilizzazione sull’affido degli adolescenti fuori famiglia.

«Secondo i dati raccolti nel 2022 dall’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, sono 23mila i minori in comunità (tra i 14 e i 17 anni) relativi al triennio 2018-2020: decisamente troppi, perché qualcosa non funziona. Gli adolescenti hanno diritto di vivere in famiglia: io a 14 anni mi sono dovuta andare a cercare da sola le famiglie che mi aprissero le porte, questi ragazzini invece paradossalmente sono già sotto la tutela dello Stato e dovrebbero avere già una lista di attesa ad aspettarli, ma così non è», denuncia Karin, 51 anni, che ha vissuto in prima persona l’affido perché i suoi genitori l’avevano allontanata forzatamente, e poi l’ha scelto con determinazione nel lavoro e nella vita privata.

«Avevo iniziato il liceo classico e per una serie di ragioni familiari spiacevoli mi sono ritrovata contro la mia volontà fuori casa, ma anche fuori da un sistema: non sono stata segnalata dalla scuola o dalle forze dell’ordine, né da parenti o amici, ai servizi sociali. Cercavo una famiglia che mi crescesse, ne ho trovate diverse dei miei compagni di classe che hanno fatto rete e mi hanno ospitato, aiutato. In comunità sarei stata vista come oppositiva, sfidante. Grazie a una delle famiglie che mi ha accolto, sono riuscita anche a laurearmi in filosofia», racconta Karin. «Da ragazzina scapestrata, sfiduciata nei confronti degli adulti, che andava contro qualsiasi regola, sono diventata studiosa, accondiscendente, con il massimo rispetto per chi ricopriva un ruolo di accudimento nei miei confronti». La ribellione e la rabbia verso le istituzioni si sono trasformate nel desiderio, da adulta, di «accogliere adolescenti, nonostante il loro vissuto difficile. Anche se le ferite restano, sono affrontabili, ma si devono accantonare le aspettative di sentirsi chiamare mamma o papà. A quei ruoli è legato un dolore troppo grande: quando si accoglie qualcuno, bisogna aprire casa e il cuore per godersi quello che arriva», puntualizza.

Così, dopo aver avuto dall’ex marito un figlio oggi quasi tredicenne, circa quattro anni fa Karin ha deciso con il suo compagno di accogliere due fratelli in affido: lei ha 16 anni, lui 13. Che scrivono nell’incipit del libro: «Sì, i bimbi descritti qui siamo noi, ma non siamo solo noi e se qui un po’ si parla di noi, si parla anche di tante altre storie come le nostre e come quelle dei nostri amici. La cosa più vera è sicuramente che ci sono tanti modi per essere famiglia e la nostra, come quella descritta da te, è parecchio strana ma sicuramente felice». Infatti il romanzo racconta l’irruzione di due sorelle preadolescenti all’interno di una famiglia formata da mamma, papà e un’unica figlia. La voce narrante è quella di una donna che, dopo essersi occupata per anni attraverso un’associazione di trovare una famiglia a bambini che i servizi sociali definiscono «incollocabili», sceglie di intraprendere in prima persona il cammino dell’affido familiare.

«Riassumo tante storie incontrate negli anni per accendere i riflettori sulla possibilità di accogliere ragazzi che dovrebbero avere una lista di famiglie vagliate dal tribunale pronte ad accoglierli, invece attendono 10 anni in comunità o ci restano fino ai 18 anni – osserva Falconi –. Ci vogliono famiglie formate (e supportate) per accogliere adolescenti e loro devono essere altrettanto formati per entrare in un progetto di affido anche sine die. Ovvero il prolungamento dell’affido non normato, a causa di un vuoto giuridico, perché di fatto non si vuole né rendere adottabile il minore né riportarlo alla famiglia di origine. Quindi resta in un limbo fino alla maggiore età». Inoltre bisogna affiancare le famiglie affidatarie perché non vadano in burn out e riportino i ragazzi in comunità: «Fra i minori in affido la categoria che registra più “resi” è quella fra 10 e 17 anni. Alcune famiglie hanno paura di chiedere aiuto e non sanno riconoscere il momento di difficoltà, pensano per ingenuità che con l’amore si possa risolvere tutto».

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