domenica 19 novembre 2023
L’assemblea sinodale ha ripreso in mano, come fa anche Amoris laetitia, gli spunti del Concilio nella logica della pari dignità di tutti i battezzati per eliminare ogni discriminazione
«Donne e Chiesa, ora la svolta. Dal Sinodo piena appartenenza»
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In ambiente ecclesiale è abbastanza facile incontrare il tema “donna”, in vario modo declinato, quando si parla di famiglia. Un po’ per l’ovvio motivo che nelle famiglie si trovano anche le donne, un po’ per il fatto che la famiglia viene considerata – a torto o a ragione – l’ambito proprio delle donne e tale convinzione porta con sé almeno due conseguenze: la prima è che altri ambiti della vita umana vengano considerati meno significativi per le donne, la seconda è che quando si tratta di famiglia raramente si parla di maschi.

In Amoris laetitia invece, papa Francesco, pur parlando delle donne relativamente alla realtà familiare, rompe in parte questo schema perché non solo denuncia i maltrattamenti e il sessismo rivolti contro le donne, ma anche perché afferma la legittimità delle aspirazioni e dell’emancipazione femminile. Non manca l’insistenza sul ruolo materno, ma possiamo trovare anche la necessità che i padri prendano il proprio posto nella crescita dei figli e – inoltre – si riconosce finalmente che “nella configurazione del proprio modo di essere, femminile o maschile, non confluiscono solamente fattori biologici o genetici, ma anche molteplici elementi relativi al temperamento, alla storia familiare, alla cultura, alle esperienze vissute, alla formazione ricevuta, alle influenze di amici, familiari e persone ammirate, e ad altre circostanze concrete che esigono uno sforzo di adattamento[…].

Farsi carico di compiti domestici o di alcuni aspetti della crescita dei figli non lo rendono meno maschile, né significano un fallimento, un cedimento o una vergogna. Bisogna aiutare i bambini ad accettare come normali questi sani “interscambi”, che non tolgono alcuna dignità alla figura paterna. La rigidità diventa una esagerazione del maschile o del femminile, e non educa i bambini e i giovani alla reciprocità incarnata nelle condizioni reali del matrimonio. Questa rigidità, a sua volta, può impedire lo sviluppo delle capacità di ciascuno” (286).

Si riconosce così che femminilità e maschilità si esprimono in modo diverso in base alla formazione, alla cultura e ai concreti vissuti, e si profila come unico criterio per realizzarle concretamente lo sviluppo delle persone: non è la persona che si deve adattare all’essere femmina, ma la femminilità (e la maschilità) verranno attuate in base a ciò che la persona è e in base a ciò cui aspira ad essere. Tale affermazione è fondamentale, ma ancora più significativo è che Amoris laetitia si occupi di maschilità e di paternità, perché così non è più la femminilità ad aver bisogno di una specifica definizione rispetto ad un umano “normale” e normativo che coinciderebbe con il maschile. Abbiamo piuttosto due parzialità umane – maschile e femminile – che vengono osservate e messe in reciproca relazione per custodire la quale occorre rimuovere le storture del sessismo e della condizione svantaggiata delle donne.

Il Sinodo dei vescovi appena svoltosi in Vaticano si può collocare sulla stessa linea di sviluppo: si riconosce la necessità della reciproca relazione – anzi se ne dichiara la bellezza anche in forza dell’esperienza fatta in aula sinodale – ma si affermano anche le difficoltà relative alla condizione delle donne dentro la Chiesa, sostenendo la necessità di rimuovere tali difficoltà per promuovere ministeri, carismi, vita ecclesiale per tutti e tutte. La direzione è la stessa, la novità è che stavolta non si parla di famiglia, ma di vita ecclesiale. Il passaggio non è di poco conto perché non si ragiona di un alveo protetto – spesso un recinto – in cui rinchiudere i vissuti delle donne che sarebbero significative solo in quanto (o soprattutto in quanto) madri e mogli, ma si ragiona dell’appartenenza ecclesiale, della partecipazione alla vita ecclesiale, di decisioni, di ministeri, di diaconato.

In una parola sola potremmo dire che il Sinodo dei vescovi apre alla considerazione delle donne nella sfera pubblica, non solo civile, ma ecclesiale. In questo senso si può sostenere che venga raccolta l’eredità di Giovanni XXIII che nella Pacem in terris aveva indicato uno dei segni dei tempi nell’ingresso delle donne nella vita pubblica. Con “segni dei tempi” – espressione tipica di papa Giovanni ed entrata nei testi conciliari – si indicano le azioni che lo Spirito compie nell’umanità e che la chiesa riconosce. Certamente nel momento in cui la Chiesa riconosce in qualcosa l’opera dello Spirito – per esempio nell’ingresso delle donne nella vita pubblica – essa non può fare altro che seguire la stessa direzione, ascoltare lo Spirito, farsi portare da esso. Con la questione femminile, però, non è andata proprio così.

Le resistenze ad una piena partecipazione delle donne alla dimensione pubblica, ministeriale, decisionale, docente, nella Chiesa sono state e sono ancora fortissime. Il Sinodo, da parte sua, fa un altro passo, compiendo relativamente alla partecipazione femminile quello che fa per molti altri argomenti (dall’episcopato, alle chiese particolari, fino alla corresponsabilità battesimale), tenta cioè una reale recezione del Concilio che sia capace non di ripeterne l’insegnamento esasperando gli elementi di continuità per cambiare il meno possibile, ma di prendersi la responsabilità di seguire la direzione indicata dal Concilio anche là dove questo non abbia esplicitato con precisione ogni dettaglio.

D’altra parte i testi conciliari non offrono l’ultima parola sulla Chiesa, ma in un contesto ben definito correggono direzioni e invertono rotte rispetto alla coscienza ecclesiale precedente. La recezione allora si deve muovere seguendo queste rotte con la libertà e il coraggio di andare dove ancora nessuno è stato, tenendo in mano il Concilio come una bussola e non come un’ancora che impedisce alla barca di prendere il largo. E così troviamo nel testo del Sinodo diversi elementi e anche domande o richieste di approfondimento che si muovono lungo la rotta della piena appartenenza ecclesiale di tutti i battezzati, ma anche della fine di ogni discriminazione fra credenti. Non nego che per chi lavora da tanto su questi temi, conoscendo la letteratura, gli studi biblici, teologici e storici, che ci danno risultati consolidati e condivisi oramai da diversi anni, le affermazioni del Sinodo possano apparire ancora timide, iniziali.

D’altra parte, proprio come è accaduto per il Concilio, bisogna vedere da dove si parte, quale è la situazione delle Chiese, quali le resistenze dette e non dette, quale la formazione condivisa e quali i pregiudizi diffusi e scambiati per dottrina ecclesiale quando non per parola di Dio. Non si può cambiare tutto subito, occorre far emergere gli argomenti, confrontarsi, suscitare dubbi, coltivare la stima reciproca, verificare le prassi. Non si può nemmeno però aspettare in eterno, rimandando all’inverosimile decisioni che potevano essere prese già decenni fa. Ci è voluto un Motu Proprio di papa Francesco per modificare la decisione che impediva l’accesso ai ministeri istituiti del lettorato e dell’accolitato alle donne: un divieto incomprensibile sul piano teologico, eppure reiterato e difeso a lungo. Se ci è voluto così tanto per i ministeri laicali, che cosa ci vorrà per una discussione aperta e franca sul diaconato? Eppure il Sinodo riapre all’approfondimento e considera la possibilità che questo venga conferito.

Non si possono differire per sempre le scelte che permettano alle Chiese di essere il segno credibile della comunione che Dio realizza, dove non ci sono discriminazioni, né esseri umani considerati inferiori o sacrificabili. Il Sinodo mi sembra averlo compreso e, se ha solo avviato la riflessione sul diaconato e sulla partecipazione ai processi decisionali delle donne, ha messo bene a fuoco che occorre eliminare ogni loro discriminazione e ogni loro deprezzamento. Da qui infatti vengono gli abusi di tutti i tipi (tante volte richiamati) che vedono come vittime sempre le donne o altri soggetti femminilizzati, cioè trattati come inferiori, passivi, oggettivabili. Il problema non è dare o meno un compito ecclesiale alle credenti ma eliminare tutti quegli elementi strutturali che favoriscono la marginalizzazione, l’isolamento, il disprezzo, la sottomissione, la mancata considerazione.

Fino a che le relazioni non saranno paritarie e il sistema socio-istituzionale della Chiesa conoscerà appartenenze di serie B, la Chiesa non potrà essere il sacramento della comunione che Dio realizza perché questa non conosce discriminazioni né gerarchie. Ancora la meta è lontana, ma il cammino è avviato e si può sperare che sarà più rapido d’ora in poi, perché altrimenti la società, che già ci ha superato in fatto di pari opportunità e di tutela degli esseri umani femminili, finirà per restare scandalizzata pensando che il Vangelo non liberi tutti e tutte, ma solo alcuni, e a quel punto davvero avremmo fallito il bersaglio.

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