venerdì 26 gennaio 2024
Oltre cento famiglie dell'associazione GenerAzioneD lanciano un appello a scuola e medici: aiutate i ragazzi con problemi di identità a trovare la propria strada. Non tutti devono diventare trans
Ragazzi a una manifestazione per i diritti

Ragazzi a una manifestazione per i diritti - Archivio

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No ai farmaci come la triptorelina, no agli ormoni. Sì alla “vigile attesa”. Che vuol dire prudenza, rispetto e cautela nei confronti dei ragazzi alle prese con i problemi dell’identità di genere. Anzi delle ragazze, visto che sono loro, nel 75 per cento dei casi, le vittime di questa nuova emergenza esistenziale. È l’appello, straziante per il dolore e la partecipazione emotiva che lo pervade, che arriva dai genitori di “GenerAzione D”, un centinaio di famiglie, che si sono messe insieme per scambiare esperienze, riferimenti, consigli lungo un percorso difficile e per certi versi perfino sconvolgente come quello dell’incongruenza di genere dei loro figli.

Nel lungo e complesso dibattito di questi giorni, che ha visto gli ispettori del ministero all’ospedale Careggi di Firenze per verificare il corretto uso del farmaco che blocca la pubertà, i genitori chiedono di essere ascoltati e di lasciare da parte il carico ideologico di un confronto che non dovrebbe avere come obiettivo l’affermazione di un principio o la rivendicazione di diritti – che loro non si sognano neppure di contestare - ma solo il bene delle ragazze e dei ragazzi.

La maggioranza di ragazze disforiche di cui parlano i genitori di “GenerAzioneD” – dove “D” sta per disforia - sono tutte giovanissime, tutte confuse da una serie di sollecitazioni stereotipate secondo cui ogni disagio con il proprio corpo femminile si risolverebbe passando al maschile. E lo stesso accade per i ragazzi.

Non è così naturalmente. Eppure succede, perché il clima culturale in cui siamo immersi non solo ha declassato a scelta ordinaria la cosiddetta “transizione sociale” – dichiararsi maschio se si è femmine e viceversa – ma ha accolto come via privilegiata per risolvere il disagio dei ragazzi il ricorso a ormoni, farmaci e intervento chirurgico. Approdo che i genitori non escludono. «Non abbiamo nulla contro le persone transessuali, binarie o non binarie, ma lasciamo ai nostri figli il tempo di capire, di comprendere quale sia davvero la loro strada, senza soluzioni già pronte, senza condizionamenti, senza pressioni ideologiche».

Il clima culturale

Oggi il clima culturale, a sentire queste mamme, è pesantemente segnato da un atteggiamento che loro definiscono “affermativo”. Il disagio legato all’identità di genere non può che avere, in questa logica, un solo sbocco. Ma non è così, spiegano, le statistiche ci dicono che almeno in 8 casi su 10 il disagio legato a corpi non allineati con la mente, per quanto riguarda la percezione della sessualità, si risolve durante l’adolescenza. Sempre che nel frattempo, seguendo le indicazioni che piovono loro addosso da tutte le parti, non sia già partito un percorso che prevede tra l’altro visita psicologica, visita con l’endocrinologo, assunzione di ormoni e infine mastectomia. E a questo punto non c’è possibilità di ritorno.

Le mamme con cui parliamo – insieme ad un papà - sono tutte informatissime, tutte convinte che le loro figlie siano finite in un tritacarne che ha numerose fonti di alimentazione. Non solo i social, dove ormai si trovano indicazioni dettagliatissime, con tanti influencer “esperti” su tutto quello che occorre fare, subito, senza perdere troppo tempo, quando si comincia a percepire quel tipo di disagio interiore, ma anche la scuola e, purtroppo, la scienza.

L'indifferenza della scuola

Cominciamo dalla scuola. Racconta una mamma che è anche medico: “Ma come è possibile che nell’istituto superiore che frequenta mia figlia i casi di disforia-incongruenza siano raddoppiati da un anno all’altro? Solo nella classe di mia figlia ci sono 7 ragazze che hanno avviato la carriera alias, 3 in un’altra classe, 4 in quell’altra. Forse si è scatenato un contagio per emulazione?”. Il problema della carriera alias è citato da molte mamme. Si tratta del regolamento che permette allo studente di farsi chiamare con un nome diverso rispetto a quello registrato alla nascita. Maschile se si è donne, e viceversa. La scuola accetta la decisione e tutto finisce lì.

Regolamenti del genere sono stati già approvati in quasi 200 istituti superiori e in 51 università. “Sembra un particolare trascurabile – spiegano ancora le mamme – ma quello è l’inizio della transizione sociale. Tornare indietro poi è difficilissimo”. Anche in assenza di protocolli, alla gran parte degli istituti dà credito ai ragazzi senza informare i genitori. Tutto può avvenire a loro insaputa. E non è previsto neppure un certificato o perlomeno una comunicazione di un medico o di uno psicologo che attesti la presenza di un problema di disforia o l’avvio di un percorso di transizione. Basta la dichiarazione del ragazzo o della ragazza. “Una scelta sbagliata – sostengono le mamme – perché non si vive solo a scuola e in ogni caso sulle spalle dei ragazzi ricade una responsabilità pesantissima che quasi sempre loro non sono in grado di gestire. Sono decisioni molto importanti e dovrebbero essere prese insieme, con il coinvolgimento della famiglia e del medico curante o dello specialista”. Su cui però la maggior parte delle mamme esprime riserve pesanti. Vediamo perché.

Psicologi a senso unico

Le storie di queste ragazze sono molto simili. Un malessere che esplode improvvisamente – almeno agli occhi dei genitori – un disagio crescente verso il proprio corpo, la decisione di abbandonare abbigliamento femminile, brillantini e cosmetici per vestire i panni del “maschiaccio”. E fin qui i genitori comprendono e approvano. “La maggior parte delle ragazze, tra i 12 e 15 anni, vive questo disagio, troppo grassa, troppo magra, troppo alta, brufoli, cappelli lunghi, capelli corti. Difficile trovare una ragazzina che viva con serenità il rapporto con il proprio corpo”. Ma quando il malessere cresce, arrivano depressione, anoressia, autolesionismo, talvolta propositi di farla finita, allora scatta l’allarme e si finisce dallo psicologo. E qui cominciano i problemi. Nella maggior parte dei casi – qui le mamme sembrano tutte concordi – la prima esperienza è purtroppo negativa. Lo specialista si limita a prendere atto della situazione, consiglia di assecondare i desideri della figlia, spiega che la disforia segue un percorso stabilito, che è inutile contrastare. E fissa gli appuntamenti successivi, compresa la visita con l’endocrinologo che, alla luce di quanto attestato dallo psicologo, si limita a prescrivere gli ormoni del caso. A questo punto il cammino sembra segnato. Anche perché, come detto, dall’altra parte i ragazzi hanno il “conforto” della classe, degli amici, dei social, di un clima che sembra costruito per dire loro: vai avanti, sei sulla strada giusta, tutto si risolverà cambiando sesso. Una soluzione facile che però, argomentano ancora i genitori, non è detto sia quella la migliore per tutte.

Le esperienze

“Dopo quasi un anno di cure ormonali – racconta una mamma – mia figlia continuava a stare male. I problemi non solo non erano scomparsi, ma erano diventati più gravi. Il disagio si era trasformato in psicosi. Lo specialista non sembrava adeguato per fronteggiare la situazione”. A questo punto, per tante famiglie, è stato decisivo il passaparola. Psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, per fortuna, non solo tutti uguali. Se tanti sono allineati con il politicamente e scientificamente “corretto”, anche perché le associazioni di categorie spesso esprimono un indirizzo uniforme da cui è difficile derogare, ci sono molti specialisti, spesso di indirizzo cognitivo-comportamentale, capaci di mettere al primo posto il bene dei pazienti non l’affermazione di diritti espressi a prescindere dalla serenità della persona. “Per le nostre figlie vogliamo solo soltanto una situazione di benessere. E siamo consapevoli che questo benessere può andare in diverse situazioni, transessualità compresa, ma dev’essere una decisione ponderata, presa con calma, senza affrettare i tempi”. Oggi, tante famiglie, grazie anche alle informazioni che arrivano da “GenerAzioneD”, hanno incontrato specialisti preparati e prudenti.

Quale via di uscita?

"Ci sono ragazze – riferiscono ancora – che hanno seguito percorsi di psicoterapia mirati, non terapie riparative naturalmente, e hanno cominciato a stare bene. Alcune stanno pian piano superando i problemi legati all’identità di genere, altre si trovano ancora in mezzo al guado e forse sarà proprio questa verifica interiore, attenta e accurata, ad accompagnarle verso l’approdo che darà loro serenità e tranquillità, qualunque esso sia”. Nessun pregiudizio, nessuna preclusione – ci tengono a ribadirlo – verso omosessualità e transessualità, ma la volontà di affrontare con cautela e prudenza situazioni delicate che, in nessun caso, hanno soluzioni facili o predefinite. E anche, in alcuni casi, la capacità di fare autocritica. Alcune mamme, per esempio, si interrogano sui modelli femminili, talvolta troppo accentuati, troppo caratterizzati da un alone di sessualità precoce, suggeriti più o meno consapevolmente alle figlie. Altre parlano per le loro figlie di omofobia interiorizzata che le ragazze si sarebbero illuse di risolvere con la volontà di “diventare” maschio. Solo ipotesi, certamente, che confermano però la volontà di tutti questi genitori – e l’associazione si allarga giorno dopo giorno ( www.generAzioned.org ) – di riflettere insieme, di confrontarsi, di trovare alleanze educative importanti, di non accettare soluzioni preconfezionate e troppo semplici. “Cerchiamo un dibattito serio, informato e consapevole per i nostri figli e per tutti i ragazzi alle prese con i problemi dell’identità di genere. Vogliamo offrire loro la possibilità di crescere, maturare e fare le scelte giuste senza condizionamenti e suggestioni a senso unico”.

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