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C’è un aspetto che, più di altri, sgomenta e interroga nell’Indagine sullo stato della paternità in Italia, Spagna e Portogallo presentata stamattina a Roma. È la confusione che si agita nella testa di troppi giovani padri. Il rapporto, realizzato da Equimundo nell’ambito del progetto europeo EMinC (Engaging Men in Nurturing Care Initiative - il coinvolgimento del padre nei primi Mille giorni, coordinato da Issa – International step by step association – rilanciati in Italia dal Cnb, Centro per la salite delle bambini e dei bambini, si prefiggeva di indagare lo sguardo dei padri (30-40) verso i compitivi educativi, ma anche nei confronti delle partner e delle consuetudini sociali. Ebbene, se da un lato i dati confermano il lento percorso evolutivo da parte degli uomini sotto l’aspetto culturale e sociale a proposito della piena partecipazione alla cura e alla necessità di una più equa condivisione dei compiti educativi, dall’altra attestano la persistenza di inaccettabili stereotipi di genere, segnati dal peggior maschilismo.
Troppi uomini, per esempio, sostengono ancora la necessità di una visione più tradizionale dei compiti familiari. E l’Italia, purtroppo, a differenza di Spagna e Portogallo, si distingue per questo arroccamento becero. Il 20% degli intervistati, per esempio, concorda sul fatto che “un uomo dovrebbe avere l’ultima parola sulle decisioni domestiche” e che il cambio di pannolino, il bagnetto e l’allattamento (escluso evidentemente quello al seno) siano responsabilità esclusive delle madri (20%). Così come che sono gli uomini a dover provvedere finanziariamente alla famiglia mentre le donne dovrebbero occuparsi della casa e dei figli (19%). La credenza tradizionale più persistente riguarda quello che la ricerca definisce “essenzialismo biologico”, con il 29% delle donne e il 32% degli uomini italiani che concordano sul fatto che le differenze biologiche rendano le donne più adatte alla cura. Sempre per quel che riguarda l’Italia, il 45% degli uomini e il 36% delle donne concorda con almeno una di queste credenze tradizionali, Numeri che rappresentano le percentuali più alte e il divario più forte tra i tre Paesi indagati.
Non è tutto, purtroppo. Anche nell’adesione alle più rigide norme di una certa visione della maschilità – l’uomo dev’essere dominante, deve tacitare qualsiasi cedimento emotivo, deve sempre mostrarsi autosufficiente e non vulnerabile, deve mettere in secondo piano l’impegno nell’accudimento della casa e nell’educazione dei figli – i padri italiani fanno registrare le convinzioni più deteriori, con un’adesione del 19% a questi stereotipi ormai quasi incredibili rispetto a una media del 16% di Spagna e Portogallo.
Piccoli numeri? No, purtroppo. Se anche solo due padri su dieci mostrano di condividere scelte e atteggiamenti che negano qualsiasi progetto di parità, reciprocità e complementarietà, c’è davvero da preoccuparsi. La percentuale costante di separazioni e di divorzi è purtroppo drammatica conferma di un’instabilità che trova anche nell’atteggiamento culturale fotografato dall’Indagine da Equimundo una delle motivazioni più forti.
Nel rapporto si fa anche notare che donne e giovani padri sono più inclini a una cura basata sulla parità di genere, mentre, a giocare un ruolo significativo nel sostegno alle norme tradizionali e nella propensione a sostenere ruoli di genere e forme rigide di maschilità, pesano molto le difficoltà economiche. Quanto più aumenta la precarietà, tanto più emergono segnali di una persistenza nel maschilismo della tradizione. Non a caso l’Indagine mette in luce come l’Italia, tra i tre Paesi in esame, mostri le percentuali peggiori per quanto riguarda l’occupazione femminile (54%, la più bassa d’Europa) e che quindi le donne abbiano 20 volte più probabilità degli uomini di essere cargiver a tempo pieno in casa (in Spagna e Portogallo 10 volte in più).
Ma basta questo dato a stabilire una correlazione diretta tra occupazione, disparità del lavoro di cura in casa e radicamento di un maschilismo che nega la parità di genere? Certamente no. Ma è sicuro che questo atteggiamento culturale, se da un lato rappresenta la miglior premessa per scoraggiare le aspettative femminili, allo stesso tempo sembra congegnato apposta anche per disincentivare la natalità. Per qualche motivo una donna costretta al ruolo di casalinga, con un partner segnato dalla patologia dell’uomo che non deve chiedere mai, dovrebbe aspirare a diventare madre, moltiplicando impegni, responsabilità e carichi di lavoro? Tanto è vero che l’indagine conferma la sproporzione nella cura di sé (essenziale per il benessere dei genitori ma soprattutto per il sano sviluppo dei propri figli/e): le madri trascurano più dei padri la cura del proprio sé fisico ed emotivo, e viceversa si prendono più cura delle esigenze del proprio partner. In Italia questo divario è più evidente: il 69% delle donne, contro il 58% degli uomini, si dedica alla cura del partner.
Ci sarebbe già abbastanza per vergognarsi – parlo per noi mariti e padri – ma c’è dell’altro. Anche quando sostengono di essere efficienti in casa, solerti nella collaborazione domestica, attenti agli aspetti educativi, gli uomini percorrono sentieri più vicino alla fantasia che alla realtà. A fronte di un 75% degli uomini (77 per l’Italia) che afferma di condividere equamente responsabilità di accudimento e di cura, c’è solo il 52% (50 per l’Italia) delle donne che lo conferma. E anche sul fronte educativo è un disastro. Il risultato? In Italia le donne impegnate nella cura dei bisogni fisici ed affettivi di bambini, sono 2,6 volte più numerose degli uomini; l’85% delle donne (contro il 59% degli uomini) puliscono la casa regolarmente e sono il doppio degli uomini (15% contro il 7%) quelle che lo fanno in modo intensivo (oltre 4 ore al giorno).
Insomma, quando vogliamo indagare le ragioni di un maschilismo persistente e dannoso, cerchiamo prima di tutto dentro le nostre case e chiediamoci cosa possiamo fare noi, in prima persona, per spezzare queste incrostazioni vergognose. Leggere che nel nostro Paese esiste una percentuale ancora significativa di giovani padri convinti di detenere una sorta di supremazia biologica e culturale nei confronti della donna, è qualcosa che non può non far inorridire. E, allo stesso tempo, deve sollecitare iniziative sociali, educative, culturali – anche pastorali - per spezzare la catena dell’ingiustizia. Cancellare questi dati è il punto di partenza fondamentale e irrinunciabile per proseguire in tutte le battaglie che consideriamo importanti, dalla parità di genere, alla bellezza del rapporto di coppia che diventa “matrimonialità” e natalità. Ma anche per continuare ad opporci, con argomenti più solidi e concreti, alla deriva orrenda del femminicidio la cui radice più oscura è proprio il virus di una maschilità malata, arrogante, incerta e strabordante.