mercoledì 5 marzo 2025
Così Valentina Mastroianni ha raccontato sul suo blog la morte di Cesare, 6 anni, affetto da una malattia rara. La complicata storia del piccolo seguita su Facebook e Instagram da 600mila persone
Cesare con i fratelli Alessandro e Teresa, il papà Federico e la mamma Valentina

Cesare con i fratelli Alessandro e Teresa, il papà Federico e la mamma Valentina

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«Ciao Cece del mio cuore, sei stato coraggioso, senza paura, fino alla fine. Circondati dal nostro amore, grazie agli angeli del guscio, sei andato via da questa vita a cui tu hai dato tanto, senza chiedere niente. Ti ho fatto una promessa: non essere arrabbiata con questa vita. E ce la metterò tutta per far sì che il mio cuore urli solo cose belle in tuo nome. Tu ora vai, finalmente libero! Corri Cece, veloce come la luce, braccia aperte e vai». Così Valentina Mastroianni ha voluto comunicare sui suoi seguitissimi profili social la morte del suo terzogenito Cesare Zambon, morto a 6 anni lo scorso 21 febbraio all’hospice pediatrico “Il guscio” dell’ospedale Gaslini di Genova. Affetto da neurofibromatosi, malattia rara che colpisce una persona su circa 3.500-4.000, il bambino aveva perso la vista a 18 mesi a causa della patologia e aveva un tumore cerebrale che negli ultimi mesi gli aveva impedito di camminare, parlare, mangiare da solo.

La madre Valentina aveva deciso di far conoscere la storia di suo figlio tramite un blog, poi attraverso la pagina Facebook (seguita da quasi 169 mila persone) e Instagram, con l’account “La storia di Cesareche conta 429 mila follower. Con De Agostini ha pubblicato a settembre 2023 il bestseller “La storia di Cesare. Scegliere a occhi chiusi la felicità” e qualche mese fa – esattamente un anno dopo dal primo volume – è uscito “E voleremo sopra la paura. Noi e Cesare, mano nella mano”, in cui l’autrice scrive: «La storia di Cece, la nostra storia, ci ha mostrato che imparare a nuotare non sarebbe stato sufficiente. Cercare un equilibrio, nemmeno. Avremmo dovuto, in qualche modo, imparare a volare. Al di sopra del dolore, di ogni brutta notizia o difficoltà, persino della paura della morte. Sopra la follia. E noi voliamo, sogniamo, cambiamo. Sono sempre stati loro, i cambiamenti, a spezzare quella catena maledetta che ha legato tanti momenti della mia vita, dalla mia infanzia fino a qui. Voglio che sia così anche questa volta. Per Cece, Ale, Terry e Federico. Per me. Per noi».

Valentina si è mostrata spesso sorridente, in tutta la sua bellezza, spiazzando chi immagina che una mamma sofferente debba essere sciatta, trasandata: «Io tengo molto al mio aspetto, è vero. Cerco di prendermi cura di me anche quando sarebbe molto più facile trascurarsi, lasciar perdere, focalizzare le energie su altre preoccupazioni. È il mio modo per fronteggiare la bestia contro cui sta combattendo mio figlio, e un po’ anche noi, e dirle: non mi butti giù, io sono forte, non mi lascio andare. Quando mi guardo allo specchio, voglio riconoscermi. E voglio farlo non solo come mamma di un bambino con il tumore, ma come Valentina, una donna, un essere umano. Proprio perché siamo innanzitutto persone, però, noi mamme non siamo tutte uguali e di certo non abbiamo lo stesso modo di reagire al buio», scrive nel libro, svelando anche di essere stata abusata da suo padre da bambina, per la prima volta all’età di sette anni, dopo che i suoi genitori si erano separati. Eppure questo trauma profondissimo non ha congelato la sua vita e la sua affettività ferita: «Tornare indietro è impossibile, ma c’è una cosa che, nel nostro piccolo, possiamo fare: cambiare il presente. Se non per salvare noi stessi, almeno i nostri figli, le persone che amiamo, le generazioni dopo di noi. Non è ancora troppo tardi».

Anzi, Valentina ha trovato nell’amare una terapia infallibile: «Ho sempre pensato che fare del bene, in qualche modo, ci salvi. Dicono infatti che chi compie gesti di altruismo lo faccia per amore del prossimo, principalmente, ma in piccola parte anche per se stesso. A me, per esempio, salva dal vedere tutto nero, dal concentrarmi così tanto sulla malattia di Cece, sulla paura, sulle difficoltà della nostra famiglia, da non riuscire più ad alzare la testa. Invece, a volte, è tutto ciò che dovremmo fare: alzare la testa e guardarci attorno. C’è così tanto bisogno di prenderci cura gli uni degli altri», scrive. E aggiunge: «Abbiamo bisogno gli uni degli altri. Una delle lezioni che la nostra folle maratona ci ha impartito, forse con qualche schiaffo di troppo, è proprio questa. Anzi, a pensarci bene, ancora prima della malattia di Cece, è stato il mio passato a insegnarmelo». In lei è maturata una consapevolezza: «In questi anni mi sono resa conto con stupore che i bambini come Cece non sono solo figli dei propri genitori. Cesare non è soltanto figlio mio, ma è figlio della comunità. Di quella comunità che deve avere cura dei più deboli, e non può, non deve, voltarsi dall’altra parte. Per chi lotta contro una malattia. Per chi prova a sopravvivere a un abuso, a guarire da traumi e a non lasciarsi definire dal male che gli è stato inferto. Per chi manifesta il proprio disagio e chi invece, per mille motivi, lo tiene chiuso a chiave dentro di sé. Per le famiglie come la nostra, per le storie travagliate come la nostra, sentirsi soli è terribilmente facile, ed è già una sconfitta».

Il volume si chiude con tanti ringraziamenti a familiari, amici, conoscenti, anche ai followers: «l’energia positiva che ci mandate è così preziosa e ci arriva ovunque siamo. Grazie a chi, proprio attraverso i social, è riuscito poi a entrare nella nostra vita, quella che c’è dietro lo schermo». E al suo Cesare: «Un genitore crede di avere tanto da insegnare ai propri figli e invece sono io che ho imparato a vivere grazie a te». E in un post del 6 febbraio Valentina scrive: «L’unica certezze è l’amore. L’amore per Cece. Per la vita. L’amore che ci unisce. Ogni respiro. Ogni istante. Sapere che siamo fortunati. Per tutto il tempo avuto. Per tutta la vita goduta. Per i sorrisi inattesi».

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