giovedì 13 febbraio 2025
La teologa: nel libro più "scandoloso" della Bibbia, tenerezza e desiderio non sono vissuti come antagonisti ma come complici. E l'attesa diventa giardino di pienezze e di limiti
Il Cantico dei cantici secondo Marc Chagall

Il Cantico dei cantici secondo Marc Chagall

COMMENTA E CONDIVIDI

Il teologo moralista Dietmar Mieth, raccontando del rapporto con sua la sua defunta moglie, Irene, osò l’espressione “vita in duale”, esplicitandola così: “Già da molto tempo i culmini del multiforme desiderio si erano trasformati, durante gli anni di una approfondita conoscenza vicendevole, nella sensazione, colma di benessere, di essere ‘una cosa sola duplice’, una persona ‘duale’ o ‘dividuale’, nella quale non è però cancellata l’individualità”.

Ed è probabilmente questo l’invito più accorato che ci giunge dal Cantico dei Cantici. Libretto strano nel canone biblico; libretto breve che ha generato sproporzionate pagine e pagine di commenti e spiegazioni; libretto in qualche modo “scandaloso” e in qualche modo “nodale”. Rileggerlo, con calma, soffermandosi senza fretta – magari attraverso una traduzione coraggiosa e con un commentario intelligente – può essere antidoto a questo tripudio di cuoricini, bigliettini, cioccolatini… dei “Valentini”. Tutti “ini”, come se l’amore fosse questione di diminutivi.

Per chi non lo avesse mai letto: nel Cantico dei Cantici si apre un mondo di corpi, di emozioni, di sentimenti, di relazioni che sono, nel contempo: nobili, altere, orgogliose ma anche fragili, liquide, feribili. Un mondo di luci e di oscurità, attraversate da bagliori. Un mondo di luoghi freddi, inabitabili e di luoghi vivibili, rigogliosi. Un mondo di indifferenza e differenza: quanto mai nitide e conviventi, intrecciate! Un mondo di risonanze interiori che duettano con le voci esteriori.

Non entrerò in sottili questioni esegetiche (non è il mio campo). Vorrei solo elencare alcuni spunti che mi paiono importanti nella educazione dei giovani (e anche di noi stessi).

  1. Spesso il Cantico dei Cantici è stato interpretato in modo dicotomico. C’è chi lo ha relegato solo al simbolico, chi solo all’erotico. Ma davvero possiamo separare i piani? L’erotico è simbolico, per definizione; se non lo è: diventa pornografia, semplicemente. I corpi vibranti, frementi, sensibili (e con questo intendo: capaci di riconoscere e dire i sensi – quanto vista, olfatto, tatto, gusto e udito sono predominanti nelle parole o oltre le parole stesse?) non sono solo “carne”, ma “fisicità abitata”. Desiderio e tenerezza, nel Cantico, non sono vissuti come antagonisti, ma come complici. Le due parole stesse che vengono utilizzate per parlare di questa esperienza, dôdim (che più rimanda alla complicità giocosa e gioiosa dei corpi) e 'ahăbâh (che più allude alle componenti emotive) sono in perpetua circolarità, mai predominati una sull’altra. È davvero ora di ripensare seriamente il rapporto corpo-anima, evitando quel filone dualista di origine platonica, che tanto (e spesso malamente!) ha caratterizzato il nostro pensiero. Dobbiamo uscire dalle grinfie di una sessuofobia, senza cadere in una sessuolatria.
  2. L’attesa è uno dei grandi protagonisti del libro. E uno dei grandi nemici del nostro tempo, tempo di “tutto e subito”, tempo di consumi e di scarti. Ma senza attesa noi non definiamo noi stessi. “Attesa” allora diventa giardino vitale di desideri, di tensioni, di cura e attenzioni, di languori e appetiti, di pienezze e limiti, di confini valicabili e invalicabili. Ma è anche luogo in cui diventiamo attendibili. Proprio perché ci riscopriamo, tramite i nostri stessi sguardi, nelle nostre sfaccettature e non in un unico trancio di noi. L’attesa diurna e notturna degli amanti del cantico è davvero richiamo per noi: a “stare” nelle nostre luci e nelle nostre ombre, in modo attivo. Anche a costo, come per la protagonista, di non essere riconosciti dagli altri, di essere “scambiati” e rischiare la vita stessa.
  3. Questa esperienza totalizzante non è tenuta nascosta, è piuttosto raccontata. Condivisa. Raccontata in dialoghi e raccontata in monologhi. Eppure, sappiamo che c’è anche un non-detto. L’amore è esperienza che siamo stati abituati a incasellare. In modelli o troppo sbilanciati sul sociale o troppo sbilanciati sul personale (per non dire: privatistico). E questo ci richiama, ancora una volta, a equilibri e completezze. L’amore va narrato, non esibito parcellizzato o celato incupito. Non va standardizzato o reso figlio di cliché e neppure taciuto. Abbiamo bisogno di parole e di Parola, per osare avvicinarlo. Insieme e da soli. Non sarà mai un aut-aut tra pubblico e privato. Gli amanti del Cantico vivono di proiezioni e di attese ma anche di certezze; non camminano su strade monotone, ma sanno camminare, perché lo hanno imparato da altri; sanno immersioni in sotterranei già affollati di consapevolezze da assumere, così come sanno ergersi su inaspettati orizzonti. Singolarmente, come coppia, con altri.

E se proprio posso osare… un ultimo punto. Vi rimando alla intervista fatta da Massimiliano Castellani, in data 29 gennaio, al regista Pupi Avati apparsa sempre sulle pagine di questo quotidiano (https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/avati-lamore-per-sempre-esiste-ed-la-mia-stupenda-trasgressione). Lo ammetto pubblicamente: amo visceralmente e intensamente lo sguardo che Pupi Avati ha sul mondo. Ma, in questa intervista, ha risuonato proprio il Cantico. Trasgredire oggi è tentare di tenere insieme un “per sempre” e un “per tutto”. Pubblico e intimo. Questa è, secondo me, “vita in duale”, come insegna Mieth.

Docente di teologia morale

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: