“Angiouli” e diavoli

La sfida del dialogo coi figli, anche quando i figli urlano e non ci capiscono. Chi cresce di più?
November 7, 2025
Due spaventapasseri
«Il burattinaio Mangiafoco pareva un uomo spaventoso» (Collodi)
Essere padre oggi non è un ruolo, ma un cammino incerto, fatto più di domande che di risposte. Continua il viaggio del nostro padre ignoto
Lasciare sempre aperta la porta del dialogo tra padre e figlio/a sembra essere, a detta di tutti gli “esperti”, la lunga traccia dalla quale non discostarsi. Io sono altrettanto certo che ciascuno di noi, però, abbia avuto in dono – o, meglio, in eredità – un abbecedario differente, con il quale ha imparato l’alfabeto e, con esso, ad intrattenere un discorso con gli altri esseri umani. Ricordo ancora l’emozione precisa nell’attimo in cui ho pronunciato “ciao, benvenuto” mentre l’infermiera nel corridoio gridava, prendendosi beffa delle mie evidenti lacrime nel rivolgersi al neonato Edoardo con un “l’hai fatto a pezzi il tuo papà”. Solo dopo molti anni ho iniziato a ripensare che quelle due semplici parole racchiudevano anche pezzi di silenzi tra me e mio padre. In quel primo momento però non ero stato in grado di sentirli tutti risuonare in me perché semplicemente, pur avendo avuto in lui una ottima figura di riferimento, volevo fare “meglio”: superare (come mi fece capire una volta, nel giorno del mio ventunesimo compleanno) quella sua innata timidezza, presagio che avrebbe schivato la ricerca a quattr’occhi del mio giudizio. E così, per iniziare ad allenarmi, fin dal giorno prima che nascesse Edoardo decisi che avrei mandato a mio figlio - a cadenza periodica non meglio definita – dei pensieri tramite e-mail, raccontandogli come stavamo crescendo insieme, affinché un giorno potesse ritrovarseli tutti in fila in una sorta espansione digitale del nostro reciproco abbecedario genetico. E mentre la scoperta della parola detta incominciava a regalarci anche i primi ragionamenti guardandosi dritti negli occhi, diminuendo esponenzialmente la necessità del ricorso alla posta elettronica, ho intensificato l’allenamento complice anche un libro (“Così è la vita” di Concita De Gregorio, ricevuto in regalo della mia amica Traciane) che mi ha rassicurato nella direzione che stavo intraprendendo, sempre su quella lunga traccia. Andare all’essenziale, e dunque non aver paura di affrontare anche il tema della morte. Imparare a dare un nome a tutte le cose della vita, come gesto creativo imprescindibile per iniziare davvero a comprenderle, soprattutto se faticose e dolorose. Del resto, quando un bambino inizia a fare una domanda non è forse per questo anche pronto a ricevere una risposta, adeguata e significativa, che contribuisca al suo sviluppo cognitivo e alla sua esplorazione del mondo?
Credo che proprio durante uno di tali nostri discorsi Edoardo, una sera di luglio prima di addormentarsi, mi chiese se gli “angiouli” dal cielo potessero sentire le sue parole o anche solo sapere a cosa stesse pensando. Ma solo perché, poi ahimè l’ho capito, stava tramando di farne qualcuna delle sue e voleva essere certo – diavolo come, già, era all’età di 5 anni – di non essere scoperto da nessuno. Di slancio, ho cercato di seguire lo stesso percorso anche con Giada, la sorella minore, e nel frattempo la casella di posta elettronica di entrambi ha continuato ad accumulare messaggi, fino al reciproco compimento del decimo anno di vita. Ma credo anche che, proprio per questa nostra abitudine di dirci tutto, il grido rabbioso di Edoardo - all’inizio della prima media e al culmine di una delle nostre prime accese discussioni - sia stato in grado di mettere in fila tutte le vocali e le consonanti necessarie a pronunciare “Adesso basta! Che vita di merda, la faccio finita”. Può poi essere davvero che a quella età i figli inizino a usare i coltelli contro i genitori senza rendersene davvero conto, come mi ha cercato di tranquillizzare – con una efficace metafora - un mio amico psicoterapeuta. Ma oggi questo conta poco rispetto all’idea che a volte mi sfiora: forse che tutto questo allenamento sia stato troppo faticoso? Non sarà che proprio per questo mi stia ritrovando, in questi ultimi anni, come se non avessi più fiato? Chi è che è cresciuto di più, in questo esercizio reciproco di generare – traendole dal nostro abbecedario - parole capaci di alimentare il dialogo? Io o “loro”?.
N.N.
[3 - continua, forse. Qui la prima puntata, qui la seconda]
Ci sono momenti in cui ci sembra di non sapere più nulla, e il nostro essere padri diventa sconosciuto. Ignoto, prima a noi che ai nostri figli. E tu da chi “hai imparato a parlare” con tuo figlio? Cosa conosci di lui? Cosa vorresti conoscere di lui? Se vuoi, puoi scrivere a ilpadreignoto@gmail.com e condividere le tue riflessioni ed esperienze. Contiamo di pubblicarle così da costruire uno spazio di confronto a più voci che sia utile a tutti.

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