Minori e giustizia, ecco tutte le domande ancora aperte
di Luciano Moia
L’operato dei servizi sociali e dei tribunali minorili, il giudizio sulla psicoterapia. E poi i bambini coinvolti e gli affidi illeciti. Un’inchiesta in cui tanto rimane ancora da chiarire e da capire

Davvero le sentenze di primo grado del processo Bibbiano ci autorizzano a concludere che non solo il caso non esiste, che forse non è mai esistito, ma che il sistema di protezione dei minori fuori famiglia del nostro Paese funziona alla perfezione? Che l’operato dei servizi sociali e dei tribunali minorili risulta sempre esemplare? Che non c’è, o non c’è mai stato, alcun interesse poco limpido nell’attività delle oltre 4mila strutture d’accoglienza per minori? Dove il numero è solo una stima perché i diversi regolamenti regionali non solo ci impediscono di conoscere il numero esatto, ma anche di definire allo stesso modo strutture che svolgono più o meno lo stesso lavoro, compresi titoli e qualifiche degli operatori chiamati al compito più delicato che esista, fare le veci di genitori che la giustizia ha ritenuto inadeguati o pericolosi.
Tante domande – senza risposta – che ci sembra giusto riproporre a una settimana dalla decisione del Tribunale di Reggio Emilia perché prese di posizione e commenti letti o ascoltati dopo la sentenza sembrano concordare su una posizione innocentista senza se e senza ma, che diventa quasi automaticamente una pagella di promozione a pieni voti per l’efficienza del nostro welfare a tutela dei minori più fragili. E se possiamo concordare sulla corale richiesta di scuse rivolta alla politica che – dopo decenni di sostanziale indifferenza verso la sorte dei bambini più fragili e delle loro famiglie – ha tentato in ogni modo di strumentalizzare il caso, ci sembra giusto prendere le distanze da valutazioni a senso unico che non rispecchiano la complessità del problema.
La strada della legge e quella della psicoterapia
Vediamo quali sono gli aspetti che meritano un’analisi meno unilaterale. Il primo aspetto da considerare riguarda il senso stesso della sentenza di questo processo che ha preteso di sottoporre a valutazioni normative gli interventi della psicoterapia. Qui il rigore giuridico viaggia su un crinale scivolosissimo e quasi inafferrabile, anche perché oggi in Italia la legge non dispone di strumenti ragionevoli per sottoporre a giudizio i metodi utilizzati da uno psicoterapeuta nell’esercizio delle sue funzioni. Anche in un ambito delicatissimo come quello dell’ascolto del minore – al di là di alcuni punti fermi come la videoregistrazione del colloquio – non esistono linee guida assolutamente vincolanti. E, di fronte alle diverse “scuole” degli specialisti, i giudici non hanno argomenti per esprimere valutazioni di merito. La prova è l’assoluzione piena di Claudio Foti, che con l’ex moglie Nadia Bolognini, anche lei assolta, è stato per anni indicato come l’oscuro ideologo di una pericolosa consorteria di psicologi e di assistenti sociali dediti a “rubare” i bambini dalle famiglie. Improvvisati osservatori avevano già tratteggiato le caratteristiche del suo metodo – si è parlato di disvelamento progressivo e di accanimento patologico nella ricerca di presunti abusi subiti dai piccoli – ma tutte quelle ricostruzioni mediatiche, in parte riprese dagli atti d’accusa, non hanno retto la prova del tribunale. Anche la Cassazione ha confermato il giudizio: assolto in via definitiva. Ma se, sul piano giudiziario, lo psicoterapeuta - e i colleghi che lavoravano con lui - esce completamente riabilitato, dal punto di vista scientifico le perplessità rimangono, come sono degne di rispetto le opinioni di altri specialisti che valutano negativamente il suo approccio psicoterapico. Dibattito legittimo ma che deve rimanere argomento per addetti ai lavori. La legge – in assenza di reati riconosciuti come tali - non ha strumenti per intervenire. Il punto di osservazione dei giudici non è quello degli psicoterapeuti.
Un’inchiesta risolta prima di cominciare
La ragione ultima che ha fatto naufragare il castello di accuse del pm di Reggio Emilia è in fondo, paradossalmente, anche il principio che ispira la struttura multidisciplinare dei nostri tribunali per i minorenni – e che la riforma Cartabia, se mai entrerà in vigore, vorrebbe cancellare – e cioè la composizione dei collegi composti da togati e onorari, cioè magistrati di carriera affiancati da psicologi, psicoterapeuti, neuropsichiatri, pedagogisti, ecc. Le competenze degli uni sul mondo dei minori non invadono quelle degli altri, ma le completano e le integrano, senza sovrapporsi. La sentenza di Bibbiano ha dimostrato che pretendere di fare il contrario significa infilarsi in una partita destinata a non schiodarsi mai dalla parità, che lascia però sul campo tante vittime, cioè i bambini e le famiglie, quelle da cui i piccoli vengono allontanati e quelle affidatarie, a lungo circondate da un clima di sospetto che ora occorre cancellare.
Ecco perché la sentenza – che rimane, lo ribadiamo, un primo grado di giudizio –è ben lontana dal risolvere tutti i dubbi. A cominciare dall’operato dei servizi sociali della Val d’Enza, i cui protagonisti escono al momento dalla vicenda senza troppe conseguenze. Hanno davvero agito in modo ineccepibile, o quasi, come si sarebbe portati a credere dopo la decisione dei giudici? Anche qui è meglio ricordare un aspetto che tutti sembrano aver dimenticato. Prima ancora che l’inchiesta Bibbiano divampasse su tutti i media, con il suo castello di accuse e di teoremi – giugno 2019 – cinque dei sei bambini coinvolti erano già stati rispediti alle loro case dal Tribunale per i minorenni di Bologna. I giudici – come confermato dall’allora presidente del Tribunale, Giuseppe Spadaro - avevano verificato i documenti in cui era stato motivato l’allontanamento da parte dei servizi sociali sulla base dell’articolo 403 del codice civile e avevano deciso che non c’erano i presupposti per confermare quella decisione. Nulla di strano. Anche prima della riforma del “403” il procuratore minorile esaminava il caso, valutava l’esistenza di soluzioni alternative all’allontanamento dei bambini dalla propria famiglia, attivava risorse sul territorio per ricomporre la situazione. Lo stesso avviene oggi. E quando questo si verifica, permette il ritorno a casa dei piccoli. È capitato così a quelli finiti al centro del caso Bibbiano. Per l’ultimo bambino invece – a fronte di una situazione di gravi inadempienze da parte dei genitori – era già stata pronunciata una sentenza definitiva di adottabilità che neppure quella mamma e quel papà, consapevoli dei propri problemi, avevano contestato. A Bibbiano, insomma, non c’era alcun bambino da salvare. La procura minorile e il tribunale di Bologna avevano fatto il proprio dovere.
Ma anche in questo caso attenzioni alle conclusioni affrettate. Non significa che in altre parti d’Italia, prima e dopo Bibbiano, non si siano verificati e non si verifichino tuttora, casi discutibili, minori allontanai dalla propria famiglia in modo affrettato e inopportuno, genitori considerati “non funzionali” o maltrattanti sulla base di valutazioni che poi devono essere riviste e corrette, perché errate. Giusto quindi attaccare i giudici, come fanno sui social, con grandi consensi in un turbine emozionale, decine di mamme “orfane” di un figlio allontanato per i più diversi motivi? Niente affatto. Servizi sociali e giudici, quando lo ritengono opportuno, hanno il dovere di intervenire, con cautela e delicatezza come raccomandato dalla garante per l’infanzia e l’adolescenza. Quando c’è in gioco il “superiore interesse” del minore ogni indugio può essere dannoso, ma poi il sistema – quando è il caso – deve avere la flessibilità necessaria per correggersi e fare marcia indietro. E oggi questo avviene, quando avviene, con grande difficoltà e pachidermica lentezza.
L’altro ieri sul nostro quotidiano (vedi qui), il presidente dell’associazione italiana magistrati per i minori e la famiglia (Aimmf), Claudio Cottatellucci, ha tra l’altro spiegato come in Italia i minori in protezione siano molti meno rispetto a Francia e Germania. E, di conseguenza, siamo molti meno anche quelli allontanati dalle famiglie. Giusto, sulle statistiche non si discute. Ma siamo certi che questi dati dimostrino il miglior funzionamento del nostro sistema di tutela rispetto ad altri Paesi europei? Intervenire “poco” significa davvero intervenire in modo corretto? Purtroppo no. Anzi, è molto probabile che tante realtà precarie, tante situazioni meritevoli di attenzione, finiscano per rimanere sommerse a causa delle fatiche dei nostri servizi sociali, un mosaico in cui mancano tante tessere e tante risorse, anche perché distribuito in modo poco omogeneo da Nord a Sud. Non è difficile allora capire che dietro quei numeri, all’apparenza incoraggianti, può nascondersi il rischio di una tutela carente. Ma anche qui è vietato generalizzare e trarre conclusioni affrettate. Chi davvero ha a cuore il bene dei bambini più fragili e indifesi sa che dietro ogni caso c’è un dramma da comprendere e da affrontare con prudenza e competenza. E la storia di Bibbiano, su cui la parola fine ancora non è stata scritta, conferma la necessità di mettere da parte toni ultimativi. Quando si parla di un bambino allontanato dalla propria famiglia non ci sono né vinti né vincitori, né “angeli”, né “demoni”. Ma tutti, senza distinzioni, siamo dalla parte degli sconfitti.
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