Marina Frolova-Walker: «In Russia non c'è potere senza musica»

In occasione della prima della Scala con la "Lady Macbeth" di Šostakovič, la musicologa di Cambridge racconta due secoli di rapporti tra Cremlino e cultura
December 6, 2025
Marina Frolova-Walker: «In Russia non c'è potere senza musica»
Una scena di "Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk" che inaugura la nuova stagione del Teatro alla Scala / Brescia e Amisano / Teatro alla Scala
Si fa fatica a immaginare un’arte libera in Russia. Sia nella Russia dell’epoca zarista, sia in quella dell’epopea comunista, sia in quella attuale del presidente Vladimir Putin. Almeno secondo Marina Frolova-Walker, la musicologa d’origine russa che dal 1994 vive in Gran Bretagna («per motivi personali, piuttosto che politici», racconta lei) e che è docente di storia della musica all’Università di Cambridge oltre a essere membro del Clare College dove è anche direttrice degli studi musicali. Dall’arte imperiale di stampo nazionalistico a quella «per decreto» di matrice sovietica, come l’esperta la definisce, si arriva all’approccio odierno su cui gravano, in modo quasi sincrono, le leggi del business e l’influenza governativa. «L’arte è sempre vincolata da qualcosa – spiega la docente –: se non da regole o leggi politiche, dalle forze del mercato. Negli anni Novanta post-comunisti, non c’era censura, ma non c’erano nemmeno finanziamenti governativi. E le arti sono diventate completamente dipendenti dal mercato di massa. Soap opera, pulp fiction e pornografia a basso costo hanno prosperato e prosperano, mentre forme creative d’élite più costose, come l’opera, hanno cercato di nuovo il sostegno statale e sono ricadute rapidamente nella dipendenza dal potere con l’emergere di nuove linee guida culturali».
L’addio di Marina Frolova-Walker a Mosca, in cui ha studiato al Conservatorio e discusso la tesi di dottorato sulle sinfonie di Schumann e la loro influenza nella musica russa, l’hanno spinta a guardare con un occhio ancora più attento alle partiture e ai compositori del suo Paese dalla nuova “casa” in Occidente, concentrandosi in particolare sulla storiografia della musica russa e sui miti nazionalisti che nelle composizioni si sono perpetuati. Un filone di ricerca che l’hanno portata a scrivere Musica russa e nazionalismo, da Glinka a Stalin , il libro che l’ha resa celebre e che ne ha fatto anche una divulgatrice, ospite dei programmi radiofonici della Bbc.
Professoressa, è davvero così nazionalistica la musica russa degli ultimi due secoli?
«Il nazionalismo è stato un elemento a cui nessuna cultura del XIX secolo ha potuto sottrarsi. È una concezione che affonda le sue radici nei filosofi tedeschi i quali sostenevano che ogni nazione possedesse non solo una propria lingua, ma anche un proprio carattere distintivo, riflesso nei suoi miti, nei suoi poemi epici, nelle sue canzoni. Il nazionalismo non ha di per sé un’accezione intrinsecamente negativa: quando una nazione oppressa si sforza di sviluppare la propria cultura e la propria lingua, tendiamo a considerarlo una lotta positiva per l’autodefinizione e l’autodeterminazione. Ma quando una nazione dominante usa la cultura per reprimere, l’effetto è di gran lunga diverso».
Lei parte dal compositore Michail Ivanovič Glinka e dal romanziere Aleksandr Sergeevic Puškin, ossia dall’inizio dell’Ottocento, per passare al vaglio il nazionalismo artistico russo.
«Non che prima di loro non si parlasse di “musica russa” o “letteratura russa”. Ma Glinka e Puškin hanno creato opere di eccezionale qualità e sono stati in seguito elevati a figure fondanti della cultura nazionale. Puškin è considerato il padre della moderna lingua letteraria russa; Glinka è visto come il compositore che ha forgiato uno stile operistico nettamente non italiano, che presumibilmente riflette il temperamento malinconico attribuito ai russi».
Musica nazionalistica sia sotto gli zar, sia nell’Urss?
«Dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917, si è avuta una reazione immediata contro il nazionalismo musicale. Reazione che si basava sul principio di un movimento proletario internazionale. Tuttavia, a partire dal 1936, Stalin ha rilanciato le idee nazionaliste, riconoscendone lo straordinario potere di unificare il Paese di fronte alle minacce esterne».
Come è cambiato il nazionalismo musicale nei decenni del Pcus?
«Lo stalinismo ha promosso l’idea che ogni nazionalità in Russia e nell’Unione Sovietica dovesse sviluppare la propria cultura, ma su una base “socialista” predefinita. Ciò aveva portato alla creazione di centinaia di opere e sinfonie nazionali ispirate alla musica popolare. Si trattava essenzialmente di “arte per decreto” e non sorprende che pochissime di queste opere abbiano resistito alla prova del tempo».
La musica al servizio del potere nell’Urss?
«Nel periodo sovietico la musica è stata indiscutibilmente un potente strumento ideologico. All’inizio il pensiero era molto chiaro: si credeva che i lavoratori avessero bisogno di musica allegra e sana per essere produttivi, non dei canti malinconici di un amore infelice. Questi propositi si sono consolidati in seguito nella dottrina piuttosto opaca del socialismo reale, ma l’insistenza sull’ottimismo è rimasto centrale».
Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmitrij Šostakovič inaugura domani sera la stagione lirica al teatro alla Scala di Milano. Opera finita nel tritacarne della censura sovietica?
«Sicuramente. Anche se con contorni strani. L’opera era reduce da due anni di grandi successi in diversi teatri. Eppure venne bruscamente ritirata dopo che Stalin vi aveva assistito e la "Pravda" aveva pubblicato un articolo feroce. Šostakovič ha avuto la iattura di trovarsi stretto nella morsa temporale in cui la camicia di forza del socialismo reale veniva imposta a tutti gli artisti. Il compositore è stato preso ad esempio. E le conseguenze su di lui si sono rivelate davvero pesanti: depressione personale, perdita di prestigio, gravi difficoltà finanziarie. Ma presto è apparso chiaro che sarebbe stato soltanto il primo di molti artisti di spicco a essere pubblicamente condannati: i registi Vsevolod Emil’evič Mejerchol’d e Sergej Michajlovič Ejzenštejn hanno seguito la stessa sorte poco dopo».
Che cosa insegna il caso Šostakovic?
«Ancora oggi si può vedere come l’umorismo nero, il grottesco e la preoccupazione per il sesso e la violenza di Šostakovič erano del tutto incompatibili con l’arte “sana” ufficialmente imposta dal socialismo reale. Stalin conosceva Šostakovič più come compositore cinematografico che come autore di musica sinfonica. Il suo intento non era distruggerlo, ma costringerlo ad adattare il suo stile. Alla fine Šostakovič ha virato verso una maggiore chiarezza, verso il classicismo e verso l’ottimismo (almeno esteriormente), ma non ha mai più scritto un’opera preferendo le sinfonie che, come sappiamo, non hanno testo e quindi potevano essere “più sicure”».
E l’arte nella Russia di oggi?
«Mi sono formata durante la Perestrojka e la caduta del sistema repressivo sovietico. Non avrei mai potuto immaginare che il Paese sarebbe tornato all’autoritarismo. Le persone comuni continuano la loro esistenza ordinaria entro i limiti di ciò che è loro possibile. La vita di Šostakovič – oscillante tra momenti di ribellione e fasi di accomodamento – è un esempio rivelatore di ciò che si poteva o non si poteva fare. La differenza è che lui è stato un grande artista e la sua opera ha in definitiva trasceso il suo tempo: per questo rimane profondamente attuale».

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