Figli, non fotocopie: la guida per i genitori tentati dal “percorso perfetto”

Il desiderio di preparare la strada e il rischio di calcarla al posto dei figli, il peso delle eredità familiari e la fatica di riconoscere quando fermarsi. Ecco qualche strumento per orientarsi
December 6, 2025
Una ragazza davanti al bivio della scelta dell'università
Una ragazza davanti al bivio della scelta dell'università

Come preparare il futuro dei nostri figli?

Quando si pone la domanda a Google appare subito una sfilata di almeno venti e più siti che propongono investimenti, piani assicurativi, consigli pratici per il risparmio guidato. Come se per preparare il futuro dei nostri figli la prima e unica preoccupazione fosse di natura economica. Desolante deriva di una mentalità, purtroppo ben radicata, secondo cui, una volta sistemato il conto in banca, tutto il resto arriva di conseguenza. Sarebbe troppo facile. Tutti i genitori che hanno fatto crescere i loro figli, li hanno accompagnati alla laurea, al primo lavoro, alle prime esperienze da adulti, sanno bene che non è così, non è “solo” così. Non significa che gli aspetti economici non esistano e non siano, nella maggior parte dei casi, fonte di preoccupazione. I soldi servono, eccome. Ma non bastano. C’è altro, molto altro. Eppure troppo spesso anche l’associazionismo familiare concentra su questo aspetto la maggior parte delle sue rivendicazioni. Gli studi sul “costo dei figli” sono una delle passioni preferite di quegli studiosi – sociologhi, economisti e altro – che da decenni si battono per dimostrare che le politiche familiari riservano ai nuclei con figli soltanto le briciole e che, una volta invertita la tendenza – semmai si riuscirà - le famiglie riprenderanno a prosperare, a fare tanti figli, ad azzerare i conflitti, a risolvere le tante emergenze educative, ad aggirare senza difficoltà i contrasti generazionali e quelli con le famiglie d’origine. Possibile? No, certamente, come dimostrano le esperienze di altri Paesi occidentali, come Francia e Germania che, pur molto più generosi di noi sul piano delle politiche familiari, si trovano a confrontarsi con gli stessi drammatici problemi esistenziali e di senso. Tra cui quello relativo al ruolo dei genitori nell’accompagnare, guidare, orientare le scelte dei figli con tante altre domande correlate: come attrezzarli per affrontare le tante sfide di una società sempre più complessa? Come preparare il loro futuro? Come offrire loro le migliori opportunità in una logica di buon senso e di rispetto? Il buon senso rimanda alle disponibilità – economiche, esperienziali, conoscitive e tanto altro – che ciascuna famiglia può mettere in campo. Il rispetto lo si deve innanzi tutto ai figli ma poi anche alla storia personale di ciascun genitore che non può essere del tutto cancellata. Un bilanciamento difficile ma che va sempre fatto con attenzione e umiltà. Vediamo come.

Dove fermarsi per evitare il rischio fotocopia sbadita?

Ogni genitore, alla nascita dei figli, si misura con un duplice rischio. Il primo è quello di sognare per loro un futuro ricalcato e modellato sulle proprie esperienze. Il ragionamento è più o meno questo: se noi abbiamo già tracciato la strada e se quello sforzo è costato tanti sacrifici, perché mai i nostri figli non dovrebbero calpestare le nostre orme, ripetere il percorso che noi abbiamo già compiuto? Si risparmierebbero molte fatiche e il nostro impegno non sarà stato vano. All’opposto c’è la tendenza che sottolinea il dono inestimabile della libertà e l’impegno a concedere loro tutto lo spazio possibile perché possano fare le esperienze più opportune, anche quando ciò dovesse costare il loro allontanamento dai nostri schemi mentali. È un confine sottile, a cui occorre guardare senza schemi prefissati, senza stereotipi, senza preconcetti. Perché è facile cadere nell’illusione di accompagnare un figlio in modo libero e, allo stesso tempo, fornirgli tutta una serie di condizionamenti involontari ma fin troppo espliciti. Come è altrettanto facile, nella convinzione che il futuro migliore per loro sia quello che noi prepariamo, immaginare che ogni variazione sul tema si possa tradure nel rischio di un fallimento. Il condizionamento è una tentazione lieve, persistente, che si infiltra leggera in mille discorsi e in mille esempi, fin da quando i figli sono piccoli. Le situazioni possono davvero essere infinite. Mio padre è stato un buon calciatore tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà degli anni Cinquanta. Giocava come difensore centrale – la definizione dell’epoca era centromediano - nella Pro Patria di Busto Arsizio che allora arrivò a disputare alcuni campionati di serie A. I ricordi della mia infanzia sono popolati e talvolta tormentati dal racconto dei duelli affrontati da mio padre con alcuni tra i grandi centravanti dell’epoca, a cominciare da Silvio Piola, attaccante mitico della Juve e della Nazionale. Quella storia da bambino la ascoltai decine e decine di volte con un risultato fin troppo scontato. Anch’io avrei giocato a calcio e anch’io sarei stato un difensore implacabile come mio padre. Cosa che infatti si verificò fino ai 13-14 anni quando, per opposizione adolescenziale, scelsi di dedicarmi al basket, con silenziosa disapprovazione e tacita delusione del papà. Ma io non volevo diventare una sua “fotocopia sbadita” e non potevo accontentarmi di ripetere quello che lui aveva già fatto, senza peraltro sperare di eguagliare i suoi successi. Non capita sempre così, naturalmente. Esistono grandi sportivi che hanno ricalcato al meglio le orme dei padri. Come esistono ottimi medici, avvocati, architetti, giornalisti, imprenditori che hanno raccolto l’eredità di famiglia e sono pienamente soddisfatti di aver proseguito nella tradizione che era stata per loro preparata. E allora? Quali sono gli elementi che concorrono a rendere opportuno una strada piuttosto che un’altra? Dov’è il confine tra educazione e condizionamento? Vediamo di capire.

Ma quando il passato della famiglia è troppo pesante?

Diciamo subito che anche in ambito educativo non esistono comportamenti asettici. Non sarebbero neppure umani. Ogni genitore non trasmette solo saperi e valori, ma anche storia, esperienze, vissuti. Anche errori, naturalmente. Anche visioni della vita che, più o meno esplicitamente, influenzano anche molto problematicamente il destino dei figli. Nella grande stagione delle ideologie tanti ragazzi si schierarono da una parte e dall’altra delle barricate – i “rossi” e i “neri” - perché già i genitori o un altro membro della famiglia militava in quella fazione. Ho frequentato il liceo nella prima metà degli anni Settanta, periodo caldissimo di tensioni e di divisioni. Nella nostra classe, tra una maggioranza di simpatizzanti di sinistra, alcuni più accesi, altri più o meno tiepidi, c’era S. un ragazzo il cui padre, reduce delle formazioni fasciste di Salò, ricopriva un ruolo importante nella sezione provinciale del Msi. Tutti lo sapevano e tutti consideravano inevitabile che quel ragazzo fosse di destra. Non ci furono mai grandi scontri, ma era considerato quasi normale che lui si opponesse sempre alle proposte dei vari collettivi legati alla cosiddetta sinistra extraparlamentare con manifesti alternativi che, affissi accanto a quelli partoriti dalle frequentissime assemblee studentesche – ogni due o tre giorni le lezioni si bloccavano per i più diversi motivi - resistevano pochi minuti e poi finivano regolarmente in mille pezzi. Quando nel novembre 1975 morì Francisco Franco, si presentò in classe con il lutto al braccio e il professore di latino, che aveva un passato partigiano, lo pose di fronte una semplice alternativa: togliere quella fascia nera o uscire dalla classe. Lui, in silenzio, senza clamori, prese la porta e rimase tutta la mattina in corridoio. Un gesto estremo ma che, come apparve a tanti di noi – pur nel dissenso sulle convinzioni politiche – aveva una sua intrinseca dignità, come una risposta inevitabile, normale per uno come lui, con quel padre così ingombrante. Come se il suo destino, le sue scelte, le sue decisioni non potessero in alcun modo prescindere da quel passato, da quella famiglia che aveva finito per condizionarlo a tal punto da non offrirgli alcuna via d’uscita se non quella rappresentata dalla fedeltà ad oltranza. L’anno successivo S. non si presentò più in classe, si trasferì a Roma e di lui non ho più saputo nulla. Ma, ripensando alle scelte di tanti ragazzi di quegli anni, ho capito che la sua condizione era tutt’altro che inconsueta. Il passato, in modi diversi e con intensità variabile, non è mai un viatico semplice e neppure asettico in qualsiasi processo educativo. Si può accettarlo e rifiutarlo, nella consapevolezza che ogni scelta comporta aspetti positivi e negativi. Pensiamoci, noi genitori, quando siamo convinti di aver “suggerito” la strada migliore per costruire il futuro dei nostri figli.

Quando occorre fermarsi e rispettare le scelte dei nostri figli?

Facilissimo rispondere in linea teorica. Meno agevole affrontare in modo sereno le varie questioni quando si presentano nella realtà. Diciamo subito che mai, in nessun caso, esiste una scelta – pilotata o autonoma – che possa mettere al riparo un figlio dalle incertezze e dalle sorprese. Nel lungo percorso educativo che ci porta a traghettare un ragazzo o una ragazza dall’infanzia all’età adulta, il fallimento totale o parziale è sempre un’ipotesi da considerare. Ma dobbiamo considerare che da qualsiasi fallimento – anche il peggiore – ci si può rialzare. E che non è mai opportuno ricercare in modo ossessivo colpe, carenze, errori educativi. Tutti noi genitori qualche volta sbagliamo, tutti in buona fede abbiamo talvolta esagerato nel caricare una scelta di significati particolari e decisivi, talvolta nell’alleggerirla a tal punto da farla apparire trascurabile e insignificante. Solo più tardi, di fronte a un esito inatteso, ci siamo accorti di quanto le nostre parole e il nostro atteggiamento siano stati determinanti nell’orientare i comportamenti dei nostri figli. «Accidenti, se avessi parlato in modo diverso, se fossi stato più incisivo nel sottolineare questo aspetto, nel metterlo in guardia da questo o quel pericolo, le cose sarebbero andate in modo diverso». Succede per le piccole e per le grandi questioni ma, guarda caso, riusciamo a mettere a fuoco il problema solo a posteriori. A dimostrazione che qualsiasi percorso educativo, anche il più meditato e il più “cautelato”, ha sempre risvolti imponderabili, esiti che si riescono a individuare con precisione sono nel tempo. «Abbiamo scelto per nostro figlio la scuola migliore, quella più costosa e meglio frequentata, abbiamo cercato di dargli tutto il possibile, l’abbiamo tenuto al riparo da amicizie inopportune e questo è il risultato. Ma cosa abbiamo sbagliato?». Stiamo generalizzando, evidentemente, ma sono domande che in modi diversi tutti i genitori qualche volta si sono posti. La risposta più semplice e più scontata, anche se non sempre è facile convincersene, è che non abbiamo sbagliato proprio nulla. Perché in quel momento, in quella circostanza, in quella condizione specifica abbiamo dato a nostro figlio il suggerimento che ci appariva più opportuno, il più saggio – apparentemente – oppure il meno rischioso. E il fatto di averlo convinto a seguire la nostra opinione ha determinato un risultato inferiore alle attese? Se avesse fatto di testa sua tutto sarebbe andato meglio? Sono domande senza risposta. Né noi genitori né i nostri figli disponiamo di una vita di riserva, in cui realizzare un ipotetico “piano B”, ma questo non significa che quanto avvenuto nella realtà sia da considerare sempre e solo sbagliato.

E quando la scelta dei genitori è “sbagliata”, chi può intervenire?

Finora abbiamo ragionato insieme su scelte ordinarie, quelle che si prendono in ogni famiglia che si interroga sul futuro dei propri figli. Ma esistono anche situazioni limite, casi in cui i genitori scelgono per i propri figli percorsi considerati azzardati oppure talmente estremi da suscitare perplessità e sollevare proteste. Il caso più clamoroso è quello di cui stiamo discutendo da giorni, anche su questi spazi, quello della “famiglia nel bosco”. Fino a che punto due genitori hanno il diritto di pretendere che i figli seguano le proprie convinzioni, anche quando si tratta di scelte tanto radicali da apparire in contrasto – secondo i giudici minorili - con alcuni diritti fondamentali dei bambini, come la scolarizzazione e la socializzazione? Ma anche quello di vivere in ambienti per quanto possibili salubri e confortevoli. Nella casetta del bosco senza acqua corrente, senza gas, senza elettricità, senza contatti quotidiani con il resto del mondo tutte queste condizioni erano assicurate? Il dibattito andrà avanti ancora lungo e non è questa la sede per tornare sulla questione. Ma l’esempio ci pare opportuno per riflettere su un ipotetico conflitto di diritti – quelli dei genitori e quelli dei figli – che, anche se in modo meno drammatico, si pone in qualsiasi scelta educativa. Proviamo a pensarci con un esempio in cui tante mamme e tanti papà si ritroveranno. I genitori che ogni giorno accompagnano il figlio o la figlia alla lezione di tennis e che insistono, anche di fronte alle ritrosie e alle resistenze dei loro ragazzi, perché l’impegno sia sempre ai massimi livelli, perché non si perda neppure un istante, perché le indicazioni del maestro anche per quanto riguarda tempi di riposo, alimentazione e abbigliamento vengano seguite con assoluto scrupolo, stanno davvero contribuendo a costruire il futuro dei loro figli o stanno solo inseguendo un sogno? Certo, l’esempio di Jannik Sinner e di altri campioni di quel livello nei diversi sport può apparire fuorviante. Se i loro genitori non avessero insistito e non si fossero mostrati fermi negli inevitabili momenti di stanchezza che ogni ragazzo prima o poi deve affrontare, avremmo avuto ugualmente atleti capaci di vincere trofei mondiali e di accumulare tanti premi milionari? Possiamo chiedercelo, certamente, ma dobbiamo essere consapevoli che la risposta non esiste. Anche perché, per pochi campioni che esplodono a livello internazionale, ci sono migliaia e migliaia di ragazzi che, nonostante l’impegno e la dedizione, loro e dei loro genitori, rimangono nell’anonimato e finiscono per abbandonare lo sport agonistico. Hanno sprecato il loro tempo? Avrebbero potuto dedicarsi più utilmente ad altre attività, lo studio innanzi tutto? Facile dirlo quando tutto è già chiaro e definito. Ma prima? Esistono elementi che dovrebbero indurci ad abbracciare questa o quella soluzione? A nostro parere, se proprio vogliamo trovare un criterio per capire quando è opportuno insistere e quando invece è meglio fermarsi, potremmo indicare tre elementi: consapevolezza, soddisfazione, risultati. Il primo punto può essere sintetizzato nell’invito alla riflessione che ogni genitore, di fronte a qualsiasi scelta impegnativa, deve sempre rivolgere ai figli con l’obiettivo di valutare insieme vantaggi e svantaggi, di informarli sulle possibili conseguenze, di valutare “se ne vale la pena”. Il secondo riguarda l’aspetto psicologico e punta a verificare gli esiti emozionali di un determinato impegno: è contento? Ha un rapporto sereno con l’istruttore e con gli altri compagni? Mostra un desiderio reale di prendere parte alla lezione o all’allenamento, oppure lo fa soltanto per non deludere noi genitori? Stesso discorso per i risultati che non vanno intesi soltanto nel senso del successo sportivo. Si può vincere anche quando si perde, si può crescere dentro anche con un esito tecnico sfavorevole se abbiamo avuto l’accortezza di dare la preferenza agli aspetti umani, dall’amicizia alla condivisione, dal rispetto alla lealtà. Certo, tutte queste indicazioni vanno poi calate nella realtà, adattate alle diverse situazioni della vita, senza mai dimenticare che noi genitori non siamo onnipotenti. Anche le mamme più attente e più impegnate, anche i padri più presenti e più lungimiranti sanno che, a un certo punto della vita, i figli cammineranno con le proprie gambe e non potremmo essere sempre presenti per indicare loro il cammino. Le scelte a cui avremmo saputo indirizzarli, anche quelle segnate da condizionamenti, da esperienze negative o più semplicemente dalle tante e imponderabili circostanze della vita, certamente peseranno. Ma peserà anche la carica di bene e di positività che avremmo saputo costruire, al di là dell’esito finale, con il nostro impegno e il nostro amore. E quello nessuno potrà mai cancellarlo nel cuore dei nostri figli. Il resto, con l’aiuto del Cielo, toccherà a loro.

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