Come funzionano le scuole per i migranti che non possono andare a scuola
La rete "Scuole senza permesso" non chiede documenti agli studenti e, per il suo impegno, domani riceverà l'Ambrogino d'oro. Lo studente: «Mi ha salvato la vita»

«È impossibile vivere senza conoscere l’italiano. Ho provato ad arrangiarmi con qualche applicazione sul telefono, ma la scuola mi ha permesso di rinnovare i documenti ogni sei mesi, di fare il muratore, il lavoro che amo, o anche solo di parlare con i miei vicini di casa». Abdalla Abdelnazour, per due volte a settimana, si siede all’ultimo banco di una delle classi a disposizione dall’associazione milanese “Fratelli di San Francesco”. Preferisce parlare poco perché, a differenza dei suoi compagni – adulti provenienti da Perù, Mali o Ucraina –, ha già raggiunto un livello avanzato, il B1, in italiano. Ma non è sempre stato così: «Sono arrivato dall’Egitto quattro anni fa e per me era impossibile andare da solo in Questura per i documenti o sostenere un colloquio di lavoro. Il cellulare non mi sarebbe mai bastato a imparare la lingua: questa scuola mi ha cambiato la vita». Quella di Abdelnazour è una delle 38 scuole cittadine gratuite che fanno parte della rete “Scuole senza permesso”, un gruppo di 700 volontari che insegnano l’italiano a circa 7.000 stranieri a Milano. A nessuno di loro, è richiesto di presentare il permesso di soggiorno per entrare in classe: «A Milano vivono circa 35mila persone senza permesso e il 90% di queste lavora – spiega Carlo Cognetti, referente della rete –. Sono già inserite nel tessuto economico della città, in attesa della regolarizzazione, ma hanno bisogno della lingua per capire i loro datori di lavoro, i loro clienti, i loro diritti e i loro doveri». Per l’impegno all’integrazione delle persone migranti, in una città che conta il 29% di cittadini con background migratorio, domani “Scuole senza permesso” riceverà il riconoscimento “Ambrogino d’oro” dalle mani del sindaco di Milano Giuseppe Sala. «Integriamo quello che fa la scuola pubblica per gli adulti – continua Cognetti – ma cerchiamo di agire dove i corsi regolari non arrivano».

Esiste, in effetti, una fetta di popolazione straniera che non riesce ad accedere ai Cpia, i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti. I motivi sono diversi: orari incompatibili con il lavoro, arrivo in Italia ad anno scolastico iniziato o livello di educazione troppo basso per iniziare un percorso scolastico tradizionale. In altre parole, gli analfabeti. Alla scuola “Itama” nel quartiere San Siro, trenta volontarie vengono incontro alle esigenze delle neomamme. «Siamo tutte donne e insegniamo l’italiano a un centinaio di studentesse che non saprebbero come andare a scuola altrimenti – spiega Stella Boccaccini, presidente dell’associazione –. Le richieste, però, sono molte più di cento: perlopiù, si tratta di donne che non possono accedere ai corsi di italiano perché non hanno una rete familiare a cui affidare i bambini». Per questo, Itama mette a disposizione aule per l’insegnamento e spazi giochi per i bimbi da zero a tre anni. L’obiettivo? Aiutare le studentesse a raggiungere il livello A2, utile per la richiesta di permesso di soggiorno, e il B1, necessario per la cittadinanza. «Ormai sono al livello B2 e la mia vita è cambiata – racconta Ikram Marrakhci, 51 anni –. Le maestre mi hanno insegnato tutto quello che serve per stare in Italia e ora, quando posso, cerco di dare questo aiuto indietro: da un anno sono tornata alla scuola Itama, ma stavolta come volontaria».
La maggior parte degli studenti senza permesso si regolarizza nell’arco di pochi anni, ma dall’apprendimento della lingua non passano solo i documenti: «Senza l’italiano non sarei riuscita neppure a comprare le verdure al mercato. Non avrei parlato con nessuno», commenta Lucia Herrada Choco, che a 55 anni si siede sui banchi ogni settimana al fianco della figlia: «Lei non ha ancora i documenti e, senza questa scuola, non potrebbe neanche immaginare un futuro in Italia».
Dal grado di istruzione della popolazione straniera, però, dipende anche la salute demografica ed economica italiana. «Siamo uno dei Paesi con la più bassa fecondità al mondo – spiega ad Avvenire Francesco Billari, professore di Demografia e rettore dell’università Bocconi di Milano – e se non c’è stato un crollo, ma solo un calo, demografico è grazie ai flussi migratori». Il basso numero di laureati italiani, però, attira pochi migranti istruiti nel nostro Paese. «Non abbiamo una struttura attrattiva per i nostri laureati, figuriamoci per l’ingegnere indiano», chiosa Billari. Ma da questo dipende anche la crescita della nostra produttività. «Lo sviluppo di un Paese passa sempre più dalla qualità del suo capitale umano, piuttosto che dal solo investimento in capitale fisico – commenta Gianpaolo Barbetta, docente di Politica economica all’università Cattolica –. La crescita arriva dalle nostre conoscenze e dalla nostra innovazione, oggi, più che dalla costruzione di un’acciaieria». Ma sviluppare conoscenze e competenze, per la popolazione straniera, è un percorso a ostacoli: «Nel percorso scolastico – continua Barbetta – il loro destino è già segnato a 4 anni. A quell’età, i test cognitivi predicono già risultati più scarsi dei coetanei italiani alle elementari. E queste difficoltà si perpetuano lungo tutta la carriera scolastica». Cosa significa? «Che hanno più chance di abbandonare la scuola in adolescenza o di non laurearsi». Istruire gli adulti, perciò, significa anche creare un ambiente favorevole all’inclusione delle seconde generazioni. «Per questo “Scuole senza permesso” è un progetto meritorio – conclude il rettore della Bocconi –. Se volessimo risolvere il problema pensando solo ai giovani, dovremmo attendere decenni. Al contrario, dobbiamo educare anche i tanti adulti sotto istruiti. Per l’educazione della popolazione straniera, dobbiamo mobilitare tutti gli attori nel Paese, altrimenti potremmo non riuscire a mantenere il nostro livello di benessere. Ora siamo in stagnazione, ma rischiamo un vero e proprio declino».
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