Cosa c'è dietro alla crisi di iscrizioni del liceo classico
È l’indirizzo che produce più laureati, ma lo scelgono sempre meno studenti. Com’è cambiato, come funziona nel resto D'Europa e quanto si guadagna con il Classico

Gli studenti del liceo classico “Michelangelo” di Firenze hanno scritto direttamente al presidente della Repubblica Sergio Mattarella: non vogliono che il loro istituto, nato a fine Ottocento, venga accorpato a un altro Classico. Ma a nulla è valso l’appello: il liceo non ha raggiunto le 600 iscrizioni e non potrà più essere indipendente. È il risultato del piano di dimensionamento del governo Meloni, sì, ma anche della crisi dei licei classici in Italia. Quasi ogni anno le iscrizioni sono in calo: se nel 2018/19 il 6,8% degli studenti sceglieva di studiare latino e greco, lo scorso anno la percentuale è calata al 5,3%. E, in vista delle iscrizioni che si concluderanno il prossimo febbraio, niente fa credere che la tendenza sarà invertita. Eppure, la salute del liceo classico è importante per tutti, a prescindere dalla nostalgia per gli autori antichi. Il peso specifico del Classico sulle lauree, in proporzione al numero di iscritti, è il più alto tra tutti gli indirizzi: il 15% dei laureati in Italia ha studiato latino e greco al liceo (dati Almalaurea). Significa che è perlopiù da questa scuola (e dal liceo scientifico, il primo in questa classifica) che provengono gli allori italiani, ancora pochi rispetto al resto d’Europa. La sua scarsa attrattività, dunque, più che dagli sbocchi professionali potrebbe derivare dall’approccio alla didattica dei classici. Quasi immutata dal XIX secolo.
Una scuola immobile?
Il liceo classico nasce prima di tutti gli altri indirizzi: lo istituì nel 1859 la legge Casati, che riformò per intero l’ordinamento scolastico, introducendo gli anni del ginnasio e del liceo e lo studio delle lingue classiche. In realtà, nell’Italia monarchica, era di fatto l’unico liceo disponibile e vi si accedeva dopo le elementari: cinque anni di ginnasio, in cui si introducevano il latino e il greco, e tre di vero e proprio liceo. La preminenza delle discipline umanistiche, poi, fu ribadita anche con le leggi che fondarono la scuola italiana: in altre parole, la riforma Gentile del 1923. Il ministro della Pubblica istruzione del governo Mussolini inventò le scuole medie e il liceo scientifico che, però, non dava accesso a tutti i corsi universitari. A differenza del classico, istituito come scuola d’élite e dal quale lo scientifico prendeva gran parte del monte orario. Dal Dopoguerra a oggi, sono nati molti altri indirizzi liceali (artistico, scienze umane, linguistico, musicale, etc.), i titoli di studio sono stati equiparati e molti curricoli stravolti (lo scientifico, con l’opzione “Scienze applicate” ha perso anche il latino). Ma il liceo classico pare rimasto uguale all’immagine che ne diede il fascismo. Con qualche sporadica eccezione introdotta grazie all’autonomia scolastica: una deriva è l’indirizzo europeo, nato in seguito al trattato di Maastricht del 1992, che dedica meno ore ai classici e più tempo alle lingue moderne. Ma che viene adottato da pochissime scuole nel Paese, perlopiù convitti.
Anche l’ultima riforma dei cicli d’istruzione secondaria superiore (2010) ha costruito un monte orario, per il Classico, non lontano da quello disegnato in epoca fascista: se nel 1923 le ore dedicate a italiano, latino e greco al quinto anno erano 15, oggi sono 11. Ma non è solo una questione di orari. È vero che ormai, nelle intenzioni del Legislatore, il liceo classico non è più da anni la scuole d’élite: le indicazioni nazionali parlano solo di un indirizzo che introduca al «gusto per la lettura» e che si nutra «dell’apporto sistematico delle altre discipline». Eppure, lo è ancora nei fatti se si guarda alla provenienza socio-economica dei suoi iscritti. Secondo il report Almalaurea 2016, oltre il 45% degli iscritti al Classico viene da famiglie di “classe elevata”, contro il 34% dello scientifico e il 21% dell’artistico. Ancora inferiori le percentuali negli istituti tecnici e professionali.
Anche l’ultima riforma dei cicli d’istruzione secondaria superiore (2010) ha costruito un monte orario, per il Classico, non lontano da quello disegnato in epoca fascista: se nel 1923 le ore dedicate a italiano, latino e greco al quinto anno erano 15, oggi sono 11. Ma non è solo una questione di orari. È vero che ormai, nelle intenzioni del Legislatore, il liceo classico non è più da anni la scuole d’élite: le indicazioni nazionali parlano solo di un indirizzo che introduca al «gusto per la lettura» e che si nutra «dell’apporto sistematico delle altre discipline». Eppure, lo è ancora nei fatti se si guarda alla provenienza socio-economica dei suoi iscritti. Secondo il report Almalaurea 2016, oltre il 45% degli iscritti al Classico viene da famiglie di “classe elevata”, contro il 34% dello scientifico e il 21% dell’artistico. Ancora inferiori le percentuali negli istituti tecnici e professionali.
Come insegnano latino e greco in Europa
L’insegnamento dei classici, però, non è una questione solo italiana. In tutta Europa si educano gli studenti al latino e al greco, ma non ovunque le “lingue morte” hanno avuto – e hanno adesso – un ruolo preminente sulle altre discipline. Le modalità di insegnamento le riassume il report Eurydice dell’Unione europea che, sintetizzando, rivela come nella maggior parte dei 27 Stati membri il latino e il greco siano lingue del tutto facoltative. Fanno eccezione – oltre all’Italia – i Paesi di lingua tedesca (Germania e Austria), dove la tradizione classica è di lunga data, Croazia, Paesi Bassi, Slovenia e gli Stati di lingua greca (Grecia e Cipro), che hanno indirizzi ad hoc per l’insegnamento dei classici. Altrove, le lingue antiche sono trattate come discipline offerte opzionalmente nei curriculum umanistici. Insomma, quasi nessun Paese europeo attribuisce alle lingue classiche lo stesso valore pedagogico dell’Italia, che pare muoversi in direzione opposta. Nel Regno Unito il governo Starmer ha tagliato quest’anno i finanziamenti alla didattica dei classici, affidandola di fatto alla sola istruzione privata, mentre in Italia il latino è stato esteso opzionalmente anche alle medie. La lungimiranza dell’investimento è difficile da valutare, perché è più una questione di capitale umano che economico. Ma qualche numero sugli stipendi di chi sceglie il latino e il greco esiste.
Quanto si guadagna con i classici
La maggior parte dei diplomati al Classico prosegue il percorso accademico con la laurea, ma il ministero dell’Istruzione e del Merito non fornisce i dati disaggregati sui corsi scelti in base all’indirizzo di provenienza. Perciò, per valutare il successo economico delle discipline classiche, si possono prendere in considerazione solo gli studenti che hanno proseguito il percorso con una laurea in Lettere antiche. E i risultati sono ambigui. Tra i laureati nelle discipline umanistiche, gli antichisti sono quelli con la percentuale più alta di occupati a tre anni dal conseguimento del diploma: 82,5% (dati Almalaurea). E godono di uno stipendio mensile netto medio di 1.416 euro. Ma, se la scelta dei classici da parte degli studenti fosse guidata – anche solo in parte – dalle condizioni economiche, forse si tratta di una decisione da rivedere: il divario con le discipline scientifiche, infatti, è lontano dall’essere colmato. A tre anni dalla laurea, uno studente di Finanza guadagna 1.820 euro, uno di Ingegneria elettronica 1.973 e un medico 1.716. Ovvero 300 euro netti in più rispetto a un classicista. Non è questo il motivo per cui si sceglie – o non si sceglie – di studiare il latino e il greco, si sa, ma forse neppure un incentivo.
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