Le critiche dei prof vanno accettate, fanno crescere
di Marco Erba
Sempre più spesso allievi e genitori faticano a gestire i rilievi degli insegnanti, li vivono come un attacco all’onore di famiglia e si mettono sulla difensiva. Ma per migliorarsi non c’è alternativa

Quando, da prof, incontro allievi che non accettano mai le critiche e genitori sempre sulla difensiva, che prendono ogni osservazione sui figli come un attacco all’onore di famiglia, penso a Stefania. Stefania, che non fa l’insegnante, è stata una delle insegnanti più importanti della mia vita. La conobbi nell’autunno di più di dieci anni fa, attraverso una mail del tutto inattesa. Stefania è la editor di un grosso gruppo editoriale. Una parte del suo lavoro è decidere quali opere vengono pubblicate e quali no. Per cui, quando aprii la sua mail e la lessi, rimasi senza fiato. Avevo sempre amato scrivere, fin da bambino. Avevo più volte tentato, senza successo, di pubblicare un romanzo. A un certo punto ci rinunciai. Lo comunicai a mia moglie: «Basta, voglio smettere di illudermi». Lei non mi rispose, ma a Natale, sotto l’albero, trovai una busta indirizzata a me: era l’iscrizione a un corso di scrittura creativa organizzato dall’Università Cattolica di Milano. Mi irrigidii: quell’iscrizione mi costringeva a rimettermi in gioco. Ero tentato di tirarmi indietro, ma mia moglie mi disse, ridendo: «Non puoi, ho già pagato. E non rimborsano». Poi aggiunse parole che ancora ricordo: «Tenta un’ultima volta. Se ci provi fino in fondo e non ce la fai, hai vinto comunque; se invece non ci provi nemmeno, hai perso senza appello, hai perso per sempre».
Frequentai il corso. Ogni settimana dovevamo presentare un nostro racconto, che veniva letto e commentato da professionisti del mondo editoriale. Il primo commento che ricevetti fu memorabile: «Questo racconto è scontato, pieno di cliché, patetico, prevedibile, legnoso». Avrei voluto sparire. Di lezione in lezione però le cose andarono meglio: capii dove sbagliavo, come non scrivere. L’ultimo lavoro da consegnare era l’inizio di un romanzo con protagonisti due adolescenti: questa volta ricevetti parole molto lusinghiere, così perseverai. Terminai il romanzo, ebbi il coraggio di farlo leggere a diversi miei studenti e colleghi, lo riscrissi, lo autopubblicai on line per vedere la reazione di un pubblico più vasto. In pochi mesi ricevetti decine di commenti positivi, i download furono centinaia. Così il romanzo finì nelle mani di Stefania, grazie a un comune conoscente. E Stefania, cosa per me incredibile, mi scrisse. Poche parole: diceva di aver letto il mio romanzo e di volermi incontrare. Esultai: era fatta! Se una editor di una casa editrice così importante voleva incontrarmi era di certo per pubblicare il mio scritto. Già mi vedevo nelle librerie, a firmare autografi, a girare il mondo come una star. Ci incontrammo per un caffè. Stefania fu gentile, accogliente; mi mise a mio agio subito. Parlammo del più e del meno, ma si vedeva che io fremevo, quindi lei andò subito al dunque: «Ho letto il tuo romanzo» disse. «Quando leggo il manoscritto di un esordiente, nel novantanove per cento dei casi mi fermo dopo due pagine. Molto raramente arrivo a qualche decina di cartelle. Il tuo l’ho letto tutto, in tre giorni». Smisi di respirare. «Mi piace il tuo stile» continuò lei. «Hai scritto una storia, forte, vera, autentica. Il linguaggio è quello giusto. Si vede che sei un prof, che conosci bene gli adolescenti». L’urlo di silenziosa esultanza in me si fece più forte, faticai a trattenere un orgoglioso sorriso. Che Stefania prontamente spense: «Ma». Ma? Ma cosa? Ma: un monosillabo che cambiava tutto. Da quel «ma», Stefania fu inarrestabile. Criticò la costruzione di alcuni personaggi, mise in luce una serie di falle e di incongruenze nella trama, fece una valanga di osservazioni. Poi concluse: «Non posso pubblicare questo libro, ha ancora molti limiti. Però se ne scrivi un altro mandamelo, per me hai la stoffa». Non sapevo se mandarla a quel paese o disperarmi. Stefania guardò l’orologio, era passata quasi un’ora. Mi disse che doveva rientrare in ufficio. Stavamo per alzarci da quel tavolino, quando aggiunse: «Io non oso chiedertelo, perché so che è una faticaccia. Se però decidi di riscrivere questo romanzo, rispediscimelo: ti prometto che lo leggo di nuovo. Una sola volta però: sono sommersa di manoscritti in attesa. Ma voglio darti un’altra chance». «Ok» risposi dubbioso. «Ci penso».
Ci pensai un giorno, poi decisi di buttarmi anima e corpo nel tentativo, senza alcuna garanzia. Mandai a Stefania la nuova versione della sstoria: era l’inizio di dicembre. Trascorsero diverse settimane di silenzio. Già pensavo che fosse finita. Poi, un pomeriggio, mentre uscivo da scuola, mi arrivò una telefonata: «Ho letto la nuova versione. Ti pubblichiamo». Furono istanti memorabili. Ma anche questa volta, Stefania mi riportò coi piedi per terra: «Non esultare troppo, dobbiamo ancora metterci mano. Direi che siamo al settanta per cento del lavoro». Lavorammo di nuovo sul testo, mi rimisi all’opera col rinnovato entusiasmo di chi ormai sa che il traguardo è davvero possibile. Il mio scritto migliorò tantissimo grazie alle critiche e alla precisione di Stefania, e da quelle critiche nacque un’amicizia. Stefania per me è stata una strepitosa insegnante: per questo cerco, da prof, di avere con i miei studenti lo stesso atteggiamento che lei ha avuto con me. Stefania è stata un’educatrice alla verità, e la verità è una strada inevitabile per crescere. Chi educa alla verità non ti giudica mai come persona: il suo giudizio è sempre nel merito di ciò che hai realizzato, che sia un romanzo, un dipinto, un’interrogazione di storia o una verifica di matematica. Tutto ciò che facciamo è migliorabile: la verità nella critica, la sincerità senza sconti, ci aiuta a crescere. I permalosi non progrediscono: se per te ogni critica è un attacco al tuo onore, resterai fermo. Le critiche non sono sfregi, ma spunti per lavorare meglio; le critiche sono suggerimenti impegnativi, non offese. Non accettare le critiche significa non volersi mettere il gioco, chiudersi nel guscio della propria comfort zone. Pretendere di mettere sempre al riparo i nostri figli dalle critiche, prendere le critiche rivolte a loro come un attacco personale, cercare di giustificare ogni loro azione è la strada migliore per sottrarli a sfide avvincenti, che potrebbero renderli più forti e competenti.
Chi educa però sa anche che, se l’amore senza verità è una menzogna patologica, la verità senza amore rischia di trasformarsi in un colpo da KO. La verità, la critica, la schiettezza hanno senso dentro una relazione in cui si ha a cuore davvero il bene dell’altro, altrimenti, in nome della verità, rischiamo di diventare censori cinici e anche un po’ sadici, che tagliano le gambe invece di aiutare a camminare. Da prof non posso certo conoscere subito e bene tutti i miei studenti, non posso provare un immediato affetto per chiunque incontro: posso però coltivare una benevola disposizione umana, una fiducia nelle potenzialità di chi ho di fronte, che mi porta a dire la verità come strumento di crescita, e non come clava per effettuare una selezione spietata. È ciò che ha fatto Stefania con me nel nostro primo incontro: si è mostrata aperta, ben disposta, alleata. Mi ha dato credito, pur senza conoscermi. Mi ha anche detto cose belle, perché la verità ha due facce: la critica, certo, ma anche l’incoraggiamento. Porto nel cuore anche oggi quel primo incontro con Stefania. Quando qualcuno mi chiede che consigli darei a chi volesse tentare di fare lo scrittore, rispondo sempre con due suggerimenti. Primo: scrivi ciò che ti piace e perché ti piace; non per fare successo, non perché un argomento va per la maggiore. La scrittura è libertà: non si può scrivere niente di autentico su commissione o per opportunismo, si scrive bene solo ciò che si sente nel profondo. Secondo: trova qualcuno che tenga a te così tanto da criticarti senza farti alcuno sconto. Consigli che valgono per la scrittura, ma, credo, anche per ogni ambito dell’esistenza.
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