mercoledì 14 febbraio 2024
Anthony Silard, insegnante di leadership alla Luiss Business School: «Nel Terzo settore ci si aspetta che i responsabili mostrino solo emozioni positive, ma si rischia una disfunzionalità»
«Un leader sostenibile? Eviti la sindrome della celebrità»
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Ogni giorno decine di migliaia di persone impegnate a vario titolo nel Terzo settore si occupano, spesso in maniera del tutto volontaria, del benessere delle altre persone. Lo fanno da diversi punti di vista e prospettive, a partire da coloro che hanno l’impegnativo ruolo di leader. Ma chi si occupa della loro formazione? Se nel settore privato abbondano corsi specifici rivolti a manager e amministratori delegati, nel Terzo settore le occasioni sono decisamente minori. «La mia missione personale è quella di creare e comunicare idee che consentono alle persone di sviluppare relazioni significative e favorire un cambiamento sociale – spiega a L’Economia Civile lo statunitense Anthony Silard, professore di leadership e Direttore del Center for Sustainable Leadership presso la Luiss Business School di Roma –. Il mio obiettivo è supportare coloro che aiutano gli altri e penso non ci siano persone migliori come quelle impegnate nel Terzo settore che fanno la differenza ogni giorno». Il 21 e 22 febbraio, Silard terrà insieme ad altri docenti a Villa Blanc un programma immersivo sul tema della leadership trasformazionale nel settore non profit, versione breve di un programma che Silard, sorta di guru del settore, tiene da oltre 20 anni negli Usa e in altri Paesi.

Professor Silard, cos’è la leadership sostenibile?

La leadership sostenibile ha quattro livelli: il leader, le relazioni, l’organizzazione e il pianeta. Innanzitutto, bisogna pensare a come un leader sostiene la sua stessa motivazione e passione, a partire dall’equilibrio vita- lavoro. Poi le relazioni: perché un’organizzazione sia sostenibile, un leader deve sviluppare una relazione sostenibile, significativa e compassionevole con lo staff, i volontari, i donatori. Questa relazione è basata su tre bisogni umani fondamentali: il bisogno di appartenere e sentirsi apprezzati e valorizzati (nessuno resta in un’organizzazione se non si sente apprezzato); il bisogno di avere legami emozionali con le persone che ci circondano (questo accade quando siamo empatici tra noi); infine il bisogno di contribuire (che rende le relazioni significative). E ancora: il terzo livello della leadership sostenibile riguarda il modo in cui i leader sviluppano un’organizzazione sostenibile, allineando la missione e la vision con le pratiche quotidiane. Infine, il quarto livello ha a che fare con il pianeta, ovvero quanto l’organizzazione contribuisce agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu e ad un pianeta più sostenibile. Questi quattro livelli sono tutti connessi tra loro, non potrebbero esistere l’uno senza l’altro.

Per quanto riguarda la leadership, quali differenze ci sono tra Terzo settore, settore privato e settore pubblico?

La principale differenza è che nel Terzo settore c’è un forte senso di scopo e impatto sociale dell’organizzazione e questo ha un’implicazione sul modo in cui i leader possono effettivamente guidare le organizzazioni stesse, a partire dalle aspettative, che sono diverse. Ogni ente non profit ha una missione sociale che tende ad essere codificata in un certo senso etico a difesa della dignità umana, che si tratti di organizzazioni che lavorano per l’ambiente, per i rifugiati, per il cambiamento climatico, l’educazione, la sanità. Nel non profit l’aspettativa è che la leadership debba esprimere per lo più emozioni positive, a differenza di quanto accade nel settore privato, dove i leader mostrano spesso emozioni negative, come la disapprovazione o la rabbia. In un ente non profit le persone si aspettano di non avere frizioni con il proprio capo, ma questa è una sfida per i loro leader, perché ci sono volte in cui le emozioni negative sono in realtà di aiuto. Si rischia una massiccia disfunzionalità se i leader non possono correggere i comportamenti che vanno corretti.

Insomma servono anche le emozioni negative…

Le emozioni negative hanno l’effetto di un segnale. Segnalano se le performance sono state non ottimali o se sono necessari cambiamenti comportamentali. Se i leader esprimono emozioni negative nei confronti di sè stessi stanno esprimendo vulnerabilità e i loro collaboratori hanno una reazione positiva in queste situazioni. C’è chi mi ha detto: “Se il leader ha espresso la sua ansia con me, vuol dire che sono molto importante per lui e questo mi fa sentire così leale e vicino a lui”. Ma non c’è posto per leader che esprimono emozioni positive verso sé stessi, autocelebrandosi.

Solitamente come cambia la leadership?

C’è una sorta di traiettoria. A mano a mano che passa il tempo, tutti prestano attenzione a ciò che il leader dice e fa, chiunque cerca di compiacerli, così che gran parte dei leader stessi cominciano a credere di essere “straordinari”. È una sorta di sindrome della celebrità. Inoltre, i leader interagiscono sempre di più con donatori e partner ma sempre meno con le persone all’interno dell’organizzazione, hanno meno tempo per loro. Così, anche coloro che sono stati scelti come leader per la loro empatia verso gli altri, rischiano di perderla.

Quali differenze riscontra maggiormente tra Italia e Stati Uniti?

L’Italia è una società molto più gerarchica. In molte organizzazioni c’è una sola persona al comando e gli altri eseguono: è una leadership molto “controllante”, soprattutto nelle generazioni più anziane. Altra differenza: in Italia i valori familiari sono molto più forti. Basti pensare alle uscite con gli amici: qui è molto più facile che due amici si vedano insieme con le rispettive famiglie, invece che da soli. Perché questo è importante? Perché parlavamo della solitudine, del bisogno di appartenere, di avere legami e contribuire. Ebbene, perché le persone fanno volontariato nel non profit? Perché spesso è un modo di appartenere alla loro comunità, di contribuire e avere legami. In Italia l’unità familiare però è così forte che il bisogno di appartenere e di connettersi non è così forte come negli Usa, dove c’è una società più individualista ma anche un’importante cultura del volontariato perché le persone sono molto sole. Questa è una sfida per gli enti non profit in Italia: coinvolgere volontari è più difficile, perché le persone soddisfano il loro bisogno di non essere sole attraverso la famiglia. Infine, altra differenza: il basso tasso di partecipazione nel mercato del lavoro delle donne italiane, che spesso sono anche ai livelli più bassi delle organizzazioni e ottengono pochi riconoscimenti. Negli Usa invece il mix è più equilibrato anche se sono necessari interventi per raggiungere una maggiore parità di genere.

Ha assistito a molti cambiamenti concreti nelle persone che hanno frequentato il suo programma?

Guardi, c’è una ricerca della George Mason University che parla di due tipi di passioni, la passione ossessiva e la passione armonica. Quella ossessiva è quando si lavora solo per ottenere una ricompensa, ad esempio si guida un ente non profit perché si vuole essere considerati e si lavora tutto il tempo, cercando di compiacere gli altri, senza avere un equilibrio vita-lavoro; la passione armonica, invece, si ha quando si lavora perché davvero si ha a cuore ciò che si sta facendo e le persone su cui si ha un impatto. Tra le persone che hanno seguito i corsi, ce ne sono molte che stanno compiendo questa transizione verso una passione armonica: oggi si sentono più a loro agio con sé stessi e con il loro ruolo. Il nostro obiettivo è solo quello di aiutarle.

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